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L'intervista

Enrico Beruschi a Bergamo: “Quella volta che zittii i contestatori al Donizetti”

Il comico milanese, protagonista venerdì 31 agosto di "Sorrisi sotto le stelle" insieme al collega Pietro Ghislandi, racconta diversi aneddoti della sua lunga carriera: "Oggi per me la satira è morta: per far ridere le nuove generazioni usano parolacce e violenza".

A Enrico Beruschi è sempre piaciuto improvvisare, sul palco come di fronte a un microfono: e così anche un’intervista si trasforma in un mini-show, di quelli che ormai sono merce sempre più rara.

Genuino e a tratti spiazzante per la genialità della sua ironia, il comico milanese riesce sempre a strappare un sorriso, con le parole o anche solo con quella mimica facciale che nei fortunati anni di Drive In ha fatto innamorare il pubblico.

Se ne sono ricordati, o lo hanno scoperto con sorpresa, anche gli spettatori di “Sorrisi sotto le stelle”, lo spettacolo voluto dal presidente del Centro Terza Età del Villaggio degli Sposi Giancarlo Cattaneo e organizzato venerdì 31 agosto nella sede locale del Gruppo Alpini: una serata di grandi risate per tutte le età, grazie anche alla presenza del comico bergamasco Pietro Ghislandi e del suo pupazzo Sergio.

Un’amicizia, quella tra Ghislandi e Beruschi, iniziata nel 1993: “Allora ero l’allievo che voleva rubare qualcosa al maestro – spiega il ventriloquo orobico – Ci siamo conosciuti per caso a Milano, durante una mostra di Bruno Bozzetto”.

Insieme sul palco del Villaggio degli Sposi hanno messo in mostra il cabaret “di una volta”: “Ora non se ne vede più – sottolinea con amarezza Beruschi – Le nuove generazioni oggi per far ridere hanno bisogno della parolaccia, della violenza o della volgarità. Di recente sono stato tra il pubblico di una trasmissione comica in tv: devo essere sincero? Dal vivo ho fatto fatica a ridere. Penso sia finita la nostra idea di comicità, non ci sono più testi scritti con la freschezza e l’ironia che avevamo noi al Drive In. Il limite di oggi è che c’è poca gioia, è difficile portare idee nuove: vedo purtroppo tante copie tutte uguali, che ripropongono anche battute inventate ai nostri tempi”.

Non è un attacco al mondo della televisione, dove confessa che tornerebbe volentieri (“L’importante è a fare cosa, mi deve piacere l’idea”), ma una critica sincera a un mondo che fatica a riconoscere: “Perchè, a distanza di 30 anni, tutti si ricordano ancora di Drive In? Perchè avevamo voglia e idee, avevamo il coraggio di fare satira. Oggi per me la satira è morta: chi decide cosa produrre non vuole quel tipo di comicità, mentre il pubblico di piazza dimostra ancora di apprezzarla”.

Impossibile evitare che ogni domanda prenda una “deriva” incontrollabile, perchè Enrico Beruschi è un pozzo inesauribile di aneddoti: “Di Bergamo ricordo tanti spettacoli ma uno in particolare al Teatro Donizetti – racconta – Non mi ricordo per quale motivo, ma mi avvertirono che in platea ci sarebbe stato un gruppetto di contestatori, seduto sulla sinistra. Così, approfittando di un momento di buio totale prima dello show sono uscito tra il pubblico nell’ala di destra, parlando a voce normalissima: dal lato opposto, subito, mi chiesero di parlare più forte. Allora sono andato da loro, scherzando e prendendo un po’ in giro coloro che avrebbero dovuto contestare. Da quel momento non è più volata una mosca”.

Riavvolgendo il nastro, Beruschi ricorda anche i tempi della scuola, quando tra i suoi compagni di classe c’erano anche Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto: “Io avevo 10 in condotta, ma quante ne abbiamo combinate. Durante le lezioni famoso era il momento in cui io e Renato trasformavamo il banco in un aereo da guerra: prima il decollo, poi un nemico sempre diverso da sconfiggere, coi compagni che stavano in assoluto silenzio per ascoltare i nostri assurdi discorsi sottovoce all’insaputa degli insegnanti”.

Dai tempi in cui era vicedirettore commerciale della Galbusera al palco del Derby Club di Milano il passo è stato quasi casuale: “Da ragioniere in ufficio ero serissimo, anzi ero anche un bel rompicoglioni: avevo un ruolo e volevo le cose fatte in un certo modo. Avevo meccanizzato l’azienda e mi aspettavo un aumento: il riconoscimento che invece mi avevano dato mi aveva deluso. Passando sconsolato di fronte al Derby mi venne incontro Walter Valdi che mi disse in milanese: ‘Faccia di m…domani vieni qui a provare’. E così ho fatto: in fin dei conti io ero solo uno che raccontava barzellette agli amici”.

Andare a ruota libera, proprio come sul palco del Derby, è sempre stata la cosa più facile per Enrico Beruschi: una capacità innata che oggi, forse, lo rende personaggio “pericoloso”, difficile da incanalare su determinati binari.

Una qualità che il comico milanese ha portato anche nell’altra sua grande passione, la lirica: “Rimane sempre nei miei progetti, così come continuo a leggere i testi di Giovanni Guareschi, autore molto sottovalutato”.

E, a proposito di progetti, qualcosa tra lui e Pietro Ghislandi pare bollire in pentola, come si lascia scappare quest’ultimo: “Enrico è un maestro, mi piacerebbe fare qualcosa insieme a lui, anche se crede che per la comicità non ci sia più speranza. Io invece penso che se nel medioevo il giullare riusciva ad avere successo e sopravvivere prendendo in giro il potere, allora lo si possa fare ancora. Noi siamo pagati per prendere in giro le cose della quotidianità, la politica. È una satira fatta a livello artigianale che ha meno notorietà ed eco a livello mediatico però al pubblico piace e, come nell’economia, l’artigianato ha dato dimostrazione di saper resistere. La gente vuole ridere nel modo che intendiamo noi ma l’industria televisiva sembra pensarla in modo diverso”.

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