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Mediterraneo e dintorni

Tutto bene al vertice Trump-Corea? Ma emerge la contrapposizione Usa-Cina

Mano a mano che emergono i dettagli dell’incontro, tuttavia, si alzano sempre più le voci critiche e le perplessità degli esperti del settore, al di là della propaganda di partito e dei posizionamenti di democratici e repubblicani.

Il vertice di Singapore del 12 giugno scorso tra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-Un è stato salutato frettolosamente da molti come uno storico accordo sulla denuclearizzazione della penisola coreana. Mano a mano che emergono i dettagli dell’incontro, tuttavia, si alzano sempre più le voci critiche e le perplessità degli esperti del settore, al di là della propaganda di partito e dei posizionamenti di democratici e repubblicani.

Su National Interest del 19 giugno scorso, Lawrence Korb e Matthew Feng hanno parlato di un accordo disastrosamente privo di sostanza, che avrebbe minato la sicurezza nazionale americana attraverso un eccesso di concessioni unilaterali alla Corea del Nord. Secondo i due autori, la Cina dalle retrovie sarebbe la vera vincitrice del vertice di Singapore. Da una parte, avrebbe visto corroborata la propria strategia di freeze for freeze, ossia di congelamento del dispositivo nucleare nordcoreano in cambio del congelamento della cooperazione militare tra la Corea del Sud e gli Stati Uniti. Dall’altra parte, il governo di Pechino avrebbe ottenuto di ridurre la pressione militare americana sull’uscio di casa, in un contesto in cui la continuazione della saga nordcoreana è spesso servita alla Cina per evitare un più rigoroso scrutinio delle sue strategie militari.

Dall’articolo, che si basa sulla scuola “realista” delle relazioni internazionali, emerge con molta chiarezza come la Cina sia considerata una minaccia strategica per gli Stati Uniti. In un articolo del 21 giugno su National Review, che esprime un punto di vista di destra classicamente conservatrice, Nicholas Eberstadt argomenta allo stesso modo che la Corea del Nord è emersa nettamente vincitrice dall’incontro di Singapore perché ha bloccato qualsiasi decisione sulla cosiddetta CVID (completa, verificabile, irreversibile denuclearizzazione). Secondo Eberstadt, il vertice ha fornito una legittimazione simbolica, coreografica, etica ed estetica al regime nordcoreano, utilizzandone persino il linguaggio e la terminologia e sostituendo la CVID (peraltro incompatibile col progetto nordcoreano di riunificazione nazionale) con una blanda definizione di “completa denuclearizzazione” che da un lato impone una riduzione del sostegno militare USA alla Corea del Sud e dall’altro elimina il principale dispositivo di legittimazione del sistema di sanzioni internazionali contro il governo di Pyongyang.

Persino sul più centrista Foreign Affairs, in un articolo del 15 giugno Bonnie Glaser e Oriana Skylar Mastro affermano che la politica cinese di reciproca descalazione nella penisola coreana pare chiaramente motivata dal desiderio di contrastare la potenza americana nella regione e di smorzare i focolai di tensione a ridosso dei propri confini.

Mentre gli occhi del mondo erano rivolti a Singapore, la tensione rimaneva molto alta a poche centinaia di miglia di distanza, nell’arcipelago delle isole Spratly, un gruppo di atolli, scogli e isolette sparso su un’area marittima estesa più dell’Italia. L’arcipelago ha un limitato interesse petrolifero, con risorse potenzialmente significative, ma largamente inesplorate. È invece immenso il valore strategico, in parte perché questi atolli e isolette permettono di controllare le rotte navali tra l’Estremo Oriente e l’Asia Meridionale; in parte perché dal controllo di questi brandelli di terra discendono i diritti di delimitazione della piattaforma continentale e delle zone di interesse economico esclusivo sulla base della UNCLOS, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, siglata nel 1982 a Montego Bay e però non ratificata da tutti i sei stati rivieraschi.

isole spratly

In breve, Cina, Vietnam, Filippine, Taiwan, Malaysia, Brunei sono a vario titolo coinvolti in politiche dei fatti compiuti e in tecniche di pressione militare che includono l’occupazione fisica di atolli e isolotti, la creazione di piste di atterraggio e basi navali, la presenza della flotte militari in mare aperto.

Particolarmente nutrita è la presenza della Cina, che dal 2015 ha impresso un’accelerazione alla costruzione di infrastrutture a uso militare nelle aree sotto il proprio controllo effettivo. Dal punto di vista cinese, questa zona è il Nányáng, un termine culturalmente connotato che immagina il Mar Cinese Meridionale e le sue coste come una propaggine “naturale” della Cina. In un conflitto di concetti geostrategici, l’amministrazione Trump sembra propendere invece per la Indo-Pacific Doctrine, una formulazione ideata a inizio del 2007 dallo studioso indiano Gurpreet Khurana e quasi subito adottata dal primo ministro giapponese dell’epoca Shinzō Abe.

Rifacendosi al canone talassocratico, ossia a un’idea di potenza nazionale attraverso il controllo dei mari, questo modello considera l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico come un unico bacino in termini militari, strategici e geopolitici. Avere una posizione di controllo nell’area che connette i due pezzi di mare, cioè proprio l’arcipelago delle Spratly, vuol dire acquisire una posizione di predominio regionale e globale. Il termine è poi tornato in auge durante la visita del primo ministro nazionalista indiano Narendra Modi al presidente americano Donald Trump nel giugno del 2017.

Tra i più fervidi sostenitori della dottrina indo-pacifica, che postula il controllo dei mari e ha per corollario l’aumento della pressione navale contro l’espansionismo cinese nel Mar Cinese Meridionale e in particolare nelle isole Spratly, si annovera l’ammiraglio Harry Harris. Considerato un “falco”, è stato a capo delle operazioni penitenziarie a Guantánamo nel 2006, poi comandante della sesta flotta con sede a Napoli dal 2009, e infine nominato da Barack Obama nel 2014 a capo del comando del Pacifico, cioè di tutte le forze armate americane di stanza nel Pacifico e nelle aree adiacenti. La presidenza Trump ha aggiunto un tassello e, sotto suggerimento del segretario di stato Mike Pompeo, ha nominato Harris nuovo ambasciatore in Corea del Sud, una funzione che ha ufficialmente assunto il 30 giugno.

A Singapore si parla di pace, ma rimane il forte sospetto che la teatrale vertenza nucleare coreana racchiuda una più intrecciata e più opaca trama di interessi e di conflitti di potenza, in primo luogo tra Stati Uniti e Cina, per il controllo strategico dell’Asia Meridionale e dei suoi mari.

 

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