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Cinema

La recensione

Papillon: tentativo riuscito a metà di rifare il grande classico del 1973

Non capisco necessariamente dove stia il bisogno di dover rifare un film come questo. Ne abbiamo già uno, decisamente più bello e interpretato da attori decisamente più bravi; infatti il retaggio con cui si è dovuto confrontare il regista è importante, tra il film del 1973 e il romanzo del 1969. Tuttavia, ne esce un film che non è del tutto da cassare.

Titolo: Papillon
Regia: Michael Noer
Attori: Chalie Hunnam, Rami Malek, Tommy Flanagan, Eve Hewson, Roland Møller
Durata: 133 minuti
Giudizio: ***

Anche solo leggendo il titolo è impossibile, anche solo per averlo sentito nominare, non pensare immediatamente al vecchio “Papillon” del 1973, interpretato da Steve McQueen e Dustin Hoffman. Anche qui, viene raccontata (di nuovo) la mirabolante, vera storia biografica del galeotto francese Henri Charrière, soprannominato “Papillon” a causa di quel suo tatuaggio particolare, a forma appunto di farfalla, situato per giunta proprio alla base del collo, dove si indossa il papillon.

Parigi, 1931. Tra piume, lustrini e champagne, Papillon (interpretato da Charlie Hunnam) conduce indisturbato la sua carriera da scassinatore professionista, che gli permettere di condurre una vita più che agiata; finché un giorno, dopo aver pestato i piedi sbagliati, vieni accusato di un omicidio che non ha commesso, condannato all’ergastolo e deportato nella Guyana Francese. Durante il
viaggio in mare, tra i corpi ammassati dei detenuti, cattura la sua attenzione una figura gracile e impaurita. Si tratta di Louis Degas (interpretato da Rami Malek), un falsario professionista ricco
sfondato, che in prigione avrebbe sicuramente avuto vita breve.

Con intenti inizialmente del tutto approfittatori, Papillon avvicina Degas proponendogli un accordo: lui lo avrebbe protetto e tenuto in vita, a patto che Degas si fosse assunto tutte le spese per l’organizzazione di un’eventuale fuga. Degas, inizialmente scettico, si accorge ben presto della sua inadeguatezza a sopravvivere da solo in un mondo come quello, e si rifugia senza indugi dietro la figura possente di Papillon, con la promessa di finanziarne la fuga.

Fin dall’inizio, Degas viene preso di mira dagli altri detenuti che vogliono impadronirsi del suo denaro e tocca a Papillon fare a calci e pugni per difenderlo. Un giorno, dopo aver aggredito una guardia in un goffo tentativo di fuga, Papillon viene condannato a due anni di isolamento. Ed è qui che il film, secondo me, prende finalmente il via. Papillon, chiuso in una stanza di due metri per due e ridotto a pelle e ossa per la mancanza di cibo, sta per impazzire; quando un giorno, nella sua giornaliera razione di “niente al vapore”, trova metà noce di cocco: un regalo del suo amico Degas, che è riuscito a corrompere il secondino. Per mesi, quella noce di cocco è l’unica cosa che lo tiene in vita. Se non fosse che un giorno viene scoperto dal direttore e condannato ad avere mezza razione, a meno che non faccia il nome di colui che ha corrotto il secondino. Papillon, fedele a Degas, rifiuta di tradirlo.

Con grande sacrificio, riesce miracolosamente a sopravvivere i due anni di isolamento e a tornare al campo di prigionia. Nel rivedersi, i due si rendono conto che il loro patto iniziale è andato ben oltre i confini dei semplici compagni di prigionia. Insieme, tra mille peripezie, escogiteranno ancora altri due piani di fuga, che li vedranno diventare compagni di avventure, molto spesso compagni di disavventure, fino a diventare amici… fratelli.

Non capisco necessariamente dove stia il bisogno di dover rifare un film come questo. Ne abbiamo già uno, decisamente più bello e interpretato da attori decisamente più bravi; infatti il retaggio con cui si è dovuto confrontare il regista è importante, tra il film del 1973 e il romanzo del 1969. Tuttavia, ne esce un film che non è del tutto da cassare. Certo, è una brutta copia, però ha qualcosa.
Si percepisce, soprattutto in alcune scene forti come l’isolamento, che c’è del potenziale latente che spinge per evadere dalla piattezza della storia, ma per qualche motivo non riesce mai a liberarsi e a sprigionare tutta la sua forza. C’è, è lì; ma non viene sviluppato. Ne risulta così un film discreto ma comunque incompleto: convince, ma non fino in fondo.

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