Il movimento #meToo è arrivato anche a Cannes, come era stato annunciato non più tardi di quattro giorni fa dal direttore artistico del festival, Thierry Frémaux. E quale migliore occasione, se non la première del film “Les filles du soleil” della regista francese Eva Husson, che narra delle guerrigliere curde in lotta contro l’esercito ISIS, per dimostrare apertamente la protesta?
Sabato sera infatti durante la sfilata sul red carpet che conduce al Grand Theatre Lumière, Cate Blanchett, alla testa di un gruppo di 82 donne professioniste del cinema tra cui le attrici Selma Hayek e Kristen Stewart, ha letto un comunicato in merito ai diritti delle donne in questo settore, in particolare uguaglianza nella retribuzione e scomparsa delle molestie sessuali.
“Chiediamo che nei nostri luoghi di lavoro ci siano più uguaglianza di diritti e maggiore diversità di talenti, così che possano davvero riflettere il mondo in cui viviamo. Vogliamo un mondo che ci permetta, di fronte o dietro la macchina da presa, di lavorare e avere successo a fianco dei nostri colleghi maschi” ha detto tra l’altro la Blanchette.
Questa azione senza precedenti a Cannes ha portato l’attenzione su alcuni numeri eloquenti: in 71 edizioni del Festival, sono stati selezionati solo 82 film diretti da donne, contro i 1.645 diretti da resti maschi; Jane Campion è la sola regista donna ad aver vinto la Palma d’Oro (con il film “Lezioni di piano”); in questa edizione solo 3, sui 21in competizione, sono film diretti da donne.
Sebbene Fremaux abbia dichiarato che i film vengono selezionati solo in base alla qualità, ha anche annunciato che d’ora in poi la composizione delle commissioni di selezione sarà bilanciata nella presenza dei due sessi.
Eva Husson è appunto una delle tre registe in concorso, insieme a Nadine Labaki e all’italiana Alice Rohrwacher. Il suo film è un inno alle guerrigliere curde e al loro coraggio di combattenti, spesso sopravvissute all’efferata violenza jihadista che si rivolge contro le donne, anche bambine di appena nove anni, che vengono prese prigioniere, violentate, ridotte a schiave sessuali e poi uccise. Il film narra l’azione di un gruppo di guerrigliere, guidate dalla coraggiosa e intelligente Bahar – un tempo avvocato, prima che le uccidessero il marito e le rapissero il figlio –a cui si affianca un’inviata di guerra francese, Mathilde, vedova recente del marito anch’egli reporter di guerra.
Il film inizia proprio con i pensieri di Mathilde che cerca di organizzarsi e dichiara di sentirsi da un po’ di tempo sempre nel posto sbagliato, incapace sia di rimanere a casa con la figlioletta sia di raggiungere l’avamposto delle curde.
Fin da questo momento si avverte una nota sfalsata che accompagnerà un po’ tutto il film, incrociando le storie di Mathilde e Bahar – i loro lutti, le sofferenze, il coraggio – connotando la pellicola di un che di melodrammatico di cui sinceramente non si sente la necessità visti i reali drammi già importanti delle donne curde. Così le vicende di Bahar -l’assassinio del marito e la sottrazione del figlio, la sua cattività con gli abusi sessuali, la fuga, il desiderio di rivalsa e di ritrovare il piccolo che la portano a imbracciare le armi, le azioni di guerra per riconquistare una cittadina e liberare i bambini in ostaggio- sebbene ben narrate sembrano un po’ romanzate. Ed è un peccato perché questo toglie vigore alla materia narrata, alla tragedia di questo popolo e di queste donne che ogni giorno meriterebbero di essere in prima pagina sui giornali e di essere fattivamente aiutate.
Invece tutto si stempera in un’epica e in un’estetica che rischia di sfociare nel sentimentalismo, incluso l’happy ending del ritrovamento del figlio. E resta la sensazione di un’occasione mancata. Forse in questo nostro sentire ha lasciato il segno il documentario “Samouni Road” visto giovedì, che ci fa rimpiangere testimonianze autentiche a discapito della fiction. Infatti il pensiero corre alla regista canadese di origini curde Zaynê Akyol, che nel suo film (presentato in anteprima italiana al 21° Milano Film Festival nel settembre 2016) narra le vicende delle guerrigliere curde del PKK che vivono sulle montagne e nei deserti del Kurdistan. Il suo è un racconto in prima persona di un gruppo di donne rivoluzionarie che combattono per la libertà del proprio paese rinunciando a tutto, famiglia inclusa.
Alla fine in sala parte un applauso tiepido, spezzato dal grido patriottico di uno spettatore focoso: “Sin verguenza como los Curdos!”. Catalogna come Kurdistan?! Se davvero abbiamo capito bene, allora non scherziamo, non mischiamo fanti e santi, por favor!
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