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Raffaello e il suo San Sebastiano: analisi dell’opera fulcro in mostra alla GAMeC

La rubrica #theARTicle torna col settimo appuntamento e lo fa “giocando in casa”: fulcro della puntata di oggi sarà infatti la mostra “Raffaello e l’eco del mito” con un particolare focus sull’opera da cui il progetto ha preso avvio, il San Sebastiano

Sono passati esattamente tre mesi dall’apertura della mostra “Raffaello e l’eco del mito”, organizzata dalla Fondazione Accademia Carrara in collaborazione con GAMeC – Galleria d’arte Moderna e Contemporanea di Bergamo – e in coproduzione con Marsilio Electa. La mostra, che anticipa le celebrazioni del 2020 riguardo il quinto centenario trascorso dalla morte del maestro urbinate e che durerà fino a domenica 6 maggio, ha già visto l’affluenza di oltre 55 mila persone giunte in Carrara sia dall’Italia che dall’estero; una curiosità al riguardo è che il 50millesimo visitatore provenisse da Salisburgo, a riprova del fatto che non è soltanto il popolo italiano ad essere interessato alla mostra.

L’opera da cui l’intero progetto ha presso avvio è il San Sebastiano, custodito proprio all’interno dell’Accademia Carrara e dipinto da Raffaello fra il 1501 e il 1502. Ma chi era quel San Sebastiano tanto dipinto dagli artisti del tempo? San Sebastiano era un militare romano vissuto ai tempi di Diocleziano e morto martire per aver sostenuto la fede cristiana. L’imperatore Diocleziano provava odio nei confronti dei fedeli cristiani e per questo, quando venne a conoscenza del credo religioso di Sebastiano, lo fece immediatamente giustiziare, facendolo trafiggere dalle frecce dopo essere stato legato nudo ad un palo. I soldati, al vederlo morente e perforato dai dardi, lo credettero morto e lo abbandonarono sul luogo; ma così non era e Santa Irene da Roma, dopo averne recuperato il corpo ed essersi accorta che era ancora vivo, lo curò dalle molte ferite. Sebastiano, prodigiosamente sanato, nonostante i suoi amici gli consigliassero di abbandonare la città, decise di proclamare la sua fede di fronte a Diocleziano: egli si presentò a cospetto dell’imperatore e lo sgridò per il suo comportamento persecutorio nei confronti dei cristiani. Sorpreso alla visita del suo soldato (che egli credeva già morto), Diocleziano ordinò di flagellarlo a morte e così avvenne nel 304 a.c.

Il San Sebastiano di Raffaello appartiene alla produzione giovanile del maestro urbinate ed è realizzata nel periodo in cui egli non aveva ancora ben definito un proprio stile, il quale risentiva ancora dell’influsso accademico ricevuto da parte del maestro Perugino. Interessante, all’interno del quadro, la freccia che il protagonista tiene nella mano destra: essa dona un senso di profondità all’opera e quest’elemento sembra intravedere una volontà da parte del giovane Raffaello di distaccarsi dall’approccio classico del maestro Perugino per avvicinarsi più allo stile di un altro artista che fu per lui gran fonte di ispirazione, Leonardo da Vinci.

La prima cosa che salta all’occhio dell’osservatore è l’espressione di San Sebastiano, il quale non appare addolorato per via della freccia conficcata nel petto, ma ha piuttosto un’espressione beata e sembra pervaso da una dolce e piacevole malinconia. Il drappo rosso è un chiaro richiamo al calvario e alle torture che lo stesso Cristo ha sopportato; in questa tela, Raffaello paragona infatti Sebastiano a Gesù Cristo poiché entrambi, con eroismo e coraggio, oltre che per amore, hanno scelto di sacrificare la propria vita per il prossimo.

Di seguito l’intervista più approfondita a Maria Cristina Rodeschini, direttore della Fondazione Accademia Carrara nonché co-curatrice della mostra assieme all’ex direttrice Emanuela Daffra e all’ex direttore della GAMeC Giacinto di Pietrantonio.

Intervista realizzata da Marco Cangelli e video a cura di Daniele Ronzoni

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