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La giuria online

“Scribo ergo sum 2018”, si parte: i primi racconti del concorso letterario studentesco

I racconti si sfideranno a colpi di likes sulla pagina Facebook di BGY e i tre racconti che riceveranno più likes nel post pubblicato su Facebook riceveranno il premio della giuria popolare online.

11 APRILE 2010

Era in piedi sul ciglio della strada accanto ad un palo che segnava la fermata dell’autobus. Sola. Un leggero vento caldo si muoveva tra i suoi lunghi e folti capelli castani scompigliandoli. Lo sguardo piombava da una parte all’altra della strada e ad intervalli regolari alzava di un poco gli occhi giusto per vedere quella gigantesca palla ormai rossa scomparire dietro il confine della terra. Sua nonna le diceva sempre che quando questo accadeva significava che il sole stava giocando a nascondino con la luna e le stelle, ma a lei piaceva sempre pensare che il sole e la luna fossero due guardiani che si davano il cambio; l’affascinava pensare che stessero sorvegliando qualcosa di segreto: un baule pieno di ricchezze oppure una principessa che non può evadere dal magico castello in cui é stata rinchiusa.
Aveva deciso di crescere, di pensare da grandi e non più come una bambina viziata che gioca con le bambole. Per lei i quattordici anni erano un traguardo che aveva tanto rincorso e aspettato. I compagni non le risparmiavano critiche sul suo comportamento da piccola ed i passanti non facevano altro che guardarla male quando rispondeva loro urlando isterica; inoltre era nata in Armenia e si era trasferita quando ancora era in fasce – tutti sappiamo che la società moderna è affetta dal razzismo, è inutile soffermarcisi -. Aveva quindi deciso di cambiare, e la variazione d’età era un buon motivo per farlo. Teneva un diario sul quale si sfogava e al quale si confidava, e mentre era di là dalla linea bianca della strada deserta, pensava a quanto fosse immatura per scrivere su quell’ammasso di carta bianca. Cambiando voleva sbarazzarsi, oltre a sentimenti e modi di fare, anche di quel suo caro diario che trasportava sue imperfezioni da cancellare. Però non era pronta. Quel diario era stato il suo unico punto di appoggio oltre la sua amica Lea. Sentiva di non doverlo trattare così. Lo tirò fuori dallo zaino stracolmo di viveri, libri di sopravvivenza e vestiti. Era vecchio e ingiallito, con la copertina trasandata e mezza strappata; una macchia di tè riempiva la parte sopra stante il nome che ne indicava la proprietaria: “Iraida”. Aprì cautamente una pagina, che risaliva all’11 aprile 2010, e la lesse.
Cara Zvarte,
Oggi a scuola due ragazzi mi hanno scherzata per il colore della mia pelle – che a dir la verità non è tanto diverso dal loro – con parole non tanto leggere. Lea mi dice sempre di lasciarli correre, e io lo faccio, ma le parole fanno male. Zvarte, io non ce la faccio più. Credo che questo mondo non faccia per me, sono troppo fragile, e odio quella che sono. Voglio un mondo dove nessuno è perfetto, un mondo dove ognuno vive nella propria imperfezione senza pensare che l’altro sia migliore, dove non esistono persone che si credano superiori. Io voglio vivere, ma non qui. Io voglio cambiare, ma non ce la faccio.
Due lacrime le erano cadute sulla pagina mentre scriveva e ancora quel giorno, quando aveva aperto il diario dopo tanto tempo di abbandono, si poteva notare il segno.
Questa era proprio la sua situazione dal 2010: niente variazioni, niente miglioramenti, nulla in più e nulla in meno. Si sentiva abbandonata a se stessa. I genitori erano assenti e spesso non la consideravano nemmeno, le rivolgevano la parola solo per annunciare il pasto e in occasioni speciali dove conversavano e ridevano assieme; sì, queste le considerava “occasioni speciali” e accadevano molto distanziate tra loro. Erano dovute probabilmente a stati d’animo positivi dei genitori, ma bastava solamente una cattiva risposta o considerata tale per farli tornare esattamente alle persone di ogni giorno: cupe, stanche, scontrose.
Mentre leggeva la pagina il pullman raggiunse il palo al quale era appoggiata. Era immersa nei suoi pensieri e non si accorse della sua presenza. L’autista, stressato dalla lunga giornata, tenne premuta la mano sul volante e fece sobbalzare sia Iraida che le persone sul bus. Con molte scuse raccattò lo zaino e salì sul veicolo. Il suo sguardo diffidente si muoveva qua e là cercando un posto libero su cui sedersi ma che fosse isolato dalle persone, che le scambiarono un sorriso. Finalmente trovò un sedile, in fondo al pullman, e lo raggiunse appesantita dallo zaino. Seduta, ricacciò il diario nella tasca interna e si appoggiò al finestrino mentre le sue mani frugavano nella tasca dei pantaloni cercando gli auricolari e il cellulare. Fece partire le solite canzoni: tristi e depresse, e chiuse gli occhi, come per far entrare in se stessa le parole, che l’avevano aiutata sempre. Senza accorgersi si assopì: il movimento del pullman e la lenta melodia l’avevano rilassata, cosa di cui aveva bisogno nell’ultimo periodo.
Quando aprì lentamente gli occhi si trovò davanti una persona, e tempo per mettere a fuoco, lo riconobbe subito: era Stefano, suo amico d’infanzia. Aveva due anni in meno di lei e si erano conosciuti quando erano andati in vacanza nello stesso posto: a New York; in seguito avevano saputo di abitare nello stesso paese, Spirano. Lui era di origini americane, e andava in vacanza a New York ogni estate per passare del tempo con i suoi nonni; Iraida invece, di origini armene, ci andava perché i suoi genitori amavano l’America, e quale città se non New York riesce a rappresentare la bellezza degli Stati Uniti?
“Ciao Iraida! Cosa ci fai qua? Dove vai?” iniziò lui con il sorriso stampato sul viso. La ragazza voleva nascondere a tutti costi il suo piano, non voleva che qualcuno le impedisse di fuggire di casa, e soprattutto non voleva raccontare la sua vera storia a quel ragazzino rinchiuso nella sua bolla di amicizia e felicità, quindi decise di oscurare il tutto come aveva sempre fatto e lasciare che fosse lui a parlare per primo sperando che arrivasse in fretta la prossima fermata per congedarlo – non che le stesse antipatico, ma non era il momento adatta a conversare con lui -.
“Tu dove vai? Solitamente non prendi i bus: c’è qualcosa che stai nascondendo ai tuoi?” controbatté Iraida. “In realtà sì, sto nascondendo qualcosa. Se vuoi saperlo devi promettermi di non farne parola con nessuno, perché se i miei lo vengono a sapere mi ammazzano”, Iraida annuì. “Okay. Loro non vogliono che esca con una ragazza, Susanna, perché la considerano di livello troppo basso rispetto al mio. Ma io la amo, e sto facendo questo per lei” continuò abbassando la voce e arrossendo. “Tu invece?” domandò ancora. “Ma dove la devi incontrare?” chiese Iraida schivando la domanda che non voleva assolutamente sentire. “Alla prossima fermata” rispose Stefano con un sorriso gigantesco. “Ma non mi hai neancora risposto: dove stai andando di bello? Devi incontrare anche te un ragazzo?” persistette lui avvicinandosi sempre più a Iraida che iniziava a non sopportare più quella curiosità. “Ehm… no, io no…” rispose. “Allora?” chiese ancora, e Iraida, stupita dalla sua immaturità – infatti avrebbe dovuto capire dal suo atteggiamento che l’argomento non era il suo preferito – si irritò e gli disse quasi urlando “Non sono affari tuoi, chiaro?”. Si pentì subito di quella risposta quasi immediata. La faccia di Stefano si era ad un tratto incupita e gli occhi gli si inondarono di lacrime. Si allontanò da lei e di punto in bianco la trattò come una sconosciuta, di punto in bianco cancellò dalla mente tutti i ricordi che aveva con Iraida, tutti i bei momenti passati, fece come se non fosse accaduto nulla tra loro. E allora Iraida capì: era stata una stupida. Come poter essere amica di una persona che non rispetta i suoi spazi, come poter essere amica di una persona che si offende per un fatto creato da se stessa e soprattutto come poter essere amica di una persona che dopo tutti quegli anni di amicizia cancella dalla mente tutti i ricordi per una questione personale. Si sentiva male, però non tanto per come si era comportato Stefano, ma per come era stata ingenua, per come non aveva capito subito di che pasta era fatta la persona che scelse come amico.

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