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La giuria online

“Scribo ergo sum 2018”, si parte: i primi racconti del concorso letterario studentesco

I racconti si sfideranno a colpi di likes sulla pagina Facebook di BGY e i tre racconti che riceveranno più likes nel post pubblicato su Facebook riceveranno il premio della giuria popolare online.

DIVERSO E’ CIO’ CHE DIVERSO SCEGLIAMO DI VEDERE

“Viva l’Italia” aveva urlato un uomo in una piazza, vicino alla strada che stavo attraversando. Subito dopo si udirono alcuni spari, gente che urlava e scappava. E io, che avevo saltato scuola per passare una mattina tranquilla, per godermi la freschezza di Febbraio e magari prendere una brioche al bar, feci finta di nulla.

Passato il finesettimana tornai a scuola, noncurante di compagni e professori. Quella prima ora del Lunedì, però, fu diversa da tutte quelle che fino a quel momento avevo vissuto.
Prima che arrivasse il vecchio professor Altèro, docente di Italiano, la classe sembrava un covo di oche starnazzanti. Io avevo la testa appoggiata sul bianco, annoiato, ed ignoravo tutto il resto. All’improvviso suonò la campanella ed il professore entrò in aula sbattendo la porta con forza. Tutti ammutolirono. Io alzai la testa di scatto. “Buongiorno ragazzi” disse il professore, e la prima cosa che notai fu il suo abbigliamento insolito: era vestito con pantaloni gialli, una camicia verde scuro e una cravatta viola, il tutto avvolto da un pesante cappotto marrone. Tutta la classe teneva gli occhi puntati su di lui. Io dalla prima fila contemplavo divertito il nuovo prof-pagliaccio. Il professore ci guardò a sua volta e sollevò un sopracciglio con aria interrogativa, poi si tolse il cappotto e lo appoggiò sulla cattedra. “Allora” disse, sistemandosi gli occhiali sul naso “presumo sappiate tutti cosa sia successo Sabato, in città…”. Nessuno rispose e il professor Altèro, dopo aver sospirato, continuò: “Un pazzo ha sparato e ferito sei negri immigrati.” dalla classe si levò un mormorio di disappunto. Penso che in quel momento il mio compagno di colore Abasi, un paio di banchi dietro al mio, abbia trattenuto a stento qualche apprezzamento nei confronti del signor Altèro. “Ora, chi di voi ritiene sia giusto?” chiese il professore, e subito una ragazza dal fondo rispose: “Nessuno”. Il professore ci squadrò tutti da dietro le spesse lenti dei suoi occhiali e poi disse: “Perché? Sono negri, selvaggi. Avete sentito di quella ragazza fatta a pezzi? Pare siano stati degli immigrati a compiere un tale orrore. Qualcuno di loro doveva pur pagare no?”. A quel punto Awad, un mio compagno marocchino seduto a qualche banco dal mio, si alzò così velocemente che la sedia cadde rumorosamente dietro di lui. “Ti rendi conto di cosa stai dicendo? Cose razziste che non andrebbero neanche pensate. Solo uno stronzo fascista pensa a ‘ste cazzate.” Disse con rabbia Awad, e prima di sedersi aggiunse: “Potresti perdere il tuo lavoro per quello che hai detto!”. Il professor Altèro chiuse gli occhi per alcuni istanti, mentre la classe cominciava a dubitare della sua sanità mentale; sorrise, infine, e disse: “Va bene ragazzi. Facciamo un gioco: Awad, verresti qua un attimo?”. Allora il mio compagno di classe guardò prima noi, poi il professore, perplesso. Si alzò dopo qualche secondo di indecisione e si avvicinò alla cattedra a braccia incrociate. “Girati verso la classe, Awad, e dicci: chi tra i tuoi compagni ti è più simile?” Awad si stupì e guardò sorpreso il professore, poi noi. “Ma che domanda è?!” obiettò, confuso. Il professore lo spronò a rispondere. Con una smorfia in volto, il mio compagno passò lo sguardo su tutta la classe. “Nessuno” disse alla fine. Dopo un attimo di silenzio il professore domandò:“Perchè?”. Awad aggrottò la fronte e rispose: “Perché nella classe nessuno mi assomiglia…”. Si udì qualche mormorio prima che il professore dicesse: “Perfetto. Grazie Awad, puoi tornare al tuo posto.”. Io nel frattempo continuavo a fissare il professor Altèro, incuriosito.
Non appena Awad si fu seduto, il professore chiamò Erika, un’altra mia compagna di classe, e le fece cenno di venire vicino a lui: “Erika, ti dispiacerebbe venire qua alla cattedra?” disse. Erika si alzò dal fondo dell’aula e arrivò davanti al professore, seguita dagli occhi di tutti. Quasi inciampò nella mia cartella, a qualche passo dalla cattedra. Erika era robusta, goffa e non proprio bella, se bisogna essere sinceri, ma anche intelligente dopotutto. Quando giunse davanti al professore, teneva la testa china come se stesse per essere rimproverata. “Erika, in cosa pensi di essere diversa dalle altre ragazze della classe?”. Nell’aula cadde un silenzio imbarazzante. “Ehm… Sono… Bassa… Grossa… Impacciata… e… adesso anche particolarmente in imbarazzo.” disse Erika balbettando, rossa come un peperone, dando le spalle alla classe. Il professor Altèro le sorrise e disse: “Grazie Erika. Puoi andare al tuo posto.” Erika rimase lì qualche secondo, incerta, ma non se lo fece ripetere due volte e tornò subito in fondo all’aula.
Il professore sospirò e si sedette. Si sistemò comodamente, poi disse: “Giovanni, Abasi, venite qua davanti.”. Dietro di me sentii una sedia stridere sul pavimento, mentre guardavo incuriosito il professor Altèro. “Che vuole chiedermi?” pensai. Mi alzai quando Abasi mi passò accanto e lo raggiunsi davanti alla cattedra. Il mio compagno di classe sembrava nervoso. “Giovanni, trova un motivo per sparare ad Abasi.” disse calmo il professore. La classe era tanto silenziosa da sembrare vuota. Io rimasi esterrefatto. Abasi guardò il professore come se fosse un pazzo. “Sta scherzando?” chiesi. “No” fu la risposta. In quel momento pensai che il professor Altèro fosse uscito di testa. “Non esiste nessun motivo per cui dovrei sparare ad Abasi!” dissi, ma il professore insistette: “Scegli un motivo qualsiasi. Oppure, Giovanni, cosa pensi vedrebbe quell’uomo, che ha sparato in piazza due giorni fa, in Abasi?”. Riflettei. “Vedrebbe in Abasi una persona cattiva, un criminale e un immigrato con cattive intenzioni, probabilmente.” dissi infine. Poi il professore domandò ancora: “E tu cosa vedi in lui?”
“Un ragazzo come me, un compagno di classe, dal diverso colore della pelle magari, ma non per questo inferiore a me o a chiunque altro.” risposi. Dopo che ebbi parlato, il professore si raddrizzò sulla sedia e lasciò che io ed Abasi tornassimo ai nostri posti. L’intera classe ora fissava il professore, che invece si rigirava la cravatta viola tra le dita e ci ignorava. Alla fine si alzò in piedi e disse così: “Ragazzi, che pensiamo di essere tutti diversi o tutti uguali, non cambia nulla. Possiamo decidere che il colore della pelle ci renda migliori o peggiori, che la nostra fede ci renda più giusti o più ingiusti, che il nostro peso ci renda più belli o più brutti. Alla fine siamo sempre noi a scegliere come vedere le cose e le persone. Quell’uomo che due giorni fa ha sparato in piazza su alcuni immigrati, vedeva animali, non uomini. Awad pensa non ci sia chi nella classe potrebbe assomigliargli, ma magari qualcuno di voi pensa di assomigliare ad Awad, per il suo carattere, per i suoi gusti, per quello che volete. Erika ha scelto di essere diversa dalle sue compagne per il suo aspetto fisico, sebbene potrebbe essere diversa per il suo unico talento nel disegno o nello studio. Giovanni vede in Abasi un compagno di classe, non dà peso al colore della sua pelle; ognuno di voi, poi, sicuramente vedrà Abasi o Giovanni come vuole. Quello che importa, ragazzi, è che vediate la diversità come un qualcosa da scoprire, da capire, sempre, e non come qualcosa da allontanare e ritenere sbagliato. Ricordatevi, quindi, che è diverso ciò che diverso noi scegliamo di vedere.
Adesso, spero vi sia piaciuta questa lezione ‘diversa’ e mi auguro non vi siate annoiati.” Il professore sorrise di nuovo.

Qualche minuto più tardi cominciammo la lezione di Italiano, come se non fosse accaduto nulla. Non riuscivo a seguire, però, la spiegazione del professore: le sue parole mi affollavano ancora la testa e cercavo di afferrarle, metterle in ordine, dargli un senso. Poi la campanella annunciò la fine dell’ora e tutti i miei compagni uscirono di corsa dalla classe. Il professor Altèro invece, prima di uscire, si pulì gli occhiali, indossò il cappotto e camminò lentamente fuori dall’aula. Ero rimasto solo io.

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