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La giuria online

“Scribo ergo sum 2018”, si parte: i primi racconti del concorso letterario studentesco

I racconti si sfideranno a colpi di likes sulla pagina Facebook di BGY e i tre racconti che riceveranno più likes nel post pubblicato su Facebook riceveranno il premio della giuria popolare online.

Quando muore la speranza

Non sono mai piaciuto alle persone, solitamente la gente mi evita. Preferisce cambiare direzione se i nostri sguardi si incrociano, talvolta non curandosi neppure di mascherare quello sdegno che tanto fa male: per quanto assurdo possa sembrare, mi è capitato di vedere madri premurose prendere in braccio i loro figli, schermando loro la vista per impedire che potessero osservarmi, neanche fossi un mostro. Non ho mai capito il motivo, o forse sì, da imputare al mio aspetto fisico dalla corporatura grossa che incute timore agli sconosciuti, o la faccia dai lineamenti severi, bruschi, di certo non piacevoli. Infine, concorre ad ottenere un risultato forse controcorrente anche quella passione, se così posso chiamarla, per dilatatori, piercing, e pure tatuaggi, che ho sempre trovato interessanti, trasgressivi, ma che forse proprio per questa ultima ragione stonano agli occhi dei più. Anche chi mostra i miei stessi gusti sovente mi giudica diverso, strano.
Quei pochi sfortunati che non si fanno intimidire dal mio aspetto esteriore vengono infine allontanati dal mio carattere: scontroso e irascibile come pochi altri. Tanto insensibile da sembrare irreale. E invece no, è tutto vero, tutto reale, la mia armatura tanto quanto gli sguardi sdegnati dai quali cerco di difendermi. Ma non sono sempre stato così, una traccia mi ha segnato, mutando la mia adolescenza per sempre.

Non ho avuto un’infanzia facile. Sono cresciuto in un quartiere povero della mia città. La mia casa, una catapecchia scrostata, era il luogo in cui trascorrevo la quasi totalità del tempo, da solo, immerso nel lerciume immondo. Mia mamma non ha mai avuto tempo da dedicarmi, perennemente occupata a garantirmi quei beni primari che in molte famiglie appaiono scontati ma che per noi rappresentano, ancora oggi, un traguardo da agguantare con fatica e che spesso non viene raggiunto generando momenti di grande sofferenza. Costretta a fare due lavori pagati una miseria, mamma passa la maggior parte della giornata lontana da me. Mio padre, invece, non l’ho mai conosciuto, ci ha abbandonati poco prima della mia nascita, e ora chissà dove si trovi.
Stando sempre da solo ho imparato fin da bambino a badare a me stesso, ad arrangiarmi per quanto questo significasse fare sacrifici su sacrifici, a differenza degli altri bambini miei coetanei che, a quell’età, non pensano ad altro se non a giocare spensierati, o a farsi coccolare tutto il giorno. Non ho mai dato la colpa di questa situazione a mia madre, sia chiaro, lei che, assente in moltissimi momenti importanti, ha sempre fatto il possibile per garantirmi una vita dignitosa e, semplicemente, normale. E allora la devo ringraziare infintamente se, quelle poche volte in cui le avanzava qualche soldo, mi portava dopo il lavoro a comprare del gelato dalla signora Gisella: ricordo come fosse ieri i mille colori e sapori che mi si presentavano davanti agli occhi, io sempre indeciso su quale gusto scegliere. Poi, ci spostavamo sul lungo viale alberato, uno dei pochi posti verdi vicino a casa, e arrivava sempre un momento in cui sceglievamo una panchina e ci sedevamo, lei ed io, per gustarci il nostro gelato, coronati da un tramonto rosso arancio che ci riempiva di speranza. E allora, ogni volta, arrivavo a desiderare quel momento non finisse mai, quasi potesse cristallizzarsi e rimanere perpetuo, una bolla di felicità che speravo potesse resistere e non scoppiare; ma arrivava sempre quel momento inevitabile, quando, terminato il gelato, tornavamo a casa sconsolati, per riprendere la solita e monotona vita, intrisa di fatiche e difficoltà.

Gli anni passarono: frequentai le scuole elementari e medie rimanendo sempre isolato dal resto della classe, a causa delle mie diversità economiche evidenti. Mai avrei pensato che già a quella età si potesse discriminare con tanta naturalezza una ragazzino. Probabilmente, i miei compagni non volevano neanche essere cattivi nei miei confronti, ma veniva loro naturale allontanarsi da ciò che reputavano diverso.
Ricordo che mi capitava di indossare gli stessi vestiti per vari giorni, non avendo la possibilità di cambiarmi quotidianamente: quando alcuni compagni se ne accorsero, iniziarono i primi risolini di scherno, le battutine offensive, le occhiate velenose, che col tempo diventarono sempre più pesanti da sopportare, sempre più cattive. Ciò che inizialmente subivo, fingendo di accettare il tutto come uno scherzo a volte di cattivo gusto, ecco che col tempo diventò insostenibile: ero diventato l’agnello al macello, la vittima pungolata dai carnefici, io impotente che, circondato da bocche audaci e giudizi pesanti, trovavo nell’isolamento una via di salvezza. A casa, poi, evitavo l’argomento, cercando di non tingere con ulteriore sofferenza i momenti passati assieme a mamma.
Tutte le preoccupazioni che avevo, speravo potessero passare senza sfoghi: il veleno che, ogni giorno, veniva alimentato in me, col tempo si tramutò in aggressività verso chiunque provasse ad accennare un minimo di ironia o sarcasmo nei miei confronti, dipingendomi come una persona permalosa, insensibile, irascibile, maleducata.
La sensibilità, la premurosità che da piccolo erano qualità evidenti, ora le sentivo insane, pericolose, da debellare. Capii che in quel modo non avrei guadagnato nulla, che le persone tendono a rispettare maggiormente chi fa loro paura, e che a sopravvivere coi lupi c’è solo una strada da percorrere: volevo iniziare ad essere rispettato anche a costo di calpestare gli altri, volevo ripagare con la stessa moneta; mutai radicalmente alcune mie abitudini e atteggiamenti, diventai più antipatico, rude, cattivo.
Iniziai a crearmi una reputazione all’interno della scuola: le persone mi evitavano, ora intimoriti dallo sfigato un tempo da umiliare a proprio divertimento. Se volevo ottenere qualcosa, ora bastava esigerlo minacciando qualcuno più debole.
In particolare, mi accanii con un ragazzo di qualche anno più giovane. Lo conoscevo abbastanza bene di vista.
Era un ragazzo piuttosto alto per la sua età, biondo, con qualche lentiggine che gli ravvivava il viso. A scuola era conosciuto da tutti, altruista ma non servizievole, ottimista ed empatico, talvolta addirittura geniale, e sempre capace di consolare un amico con un sorriso, una parola al posto giusto, una pacca amorevole. Apprezzato dai conoscenti, stimato dai docenti e preso come modello da seguire, era quasi bonariamente invidiato dai molti amici.
Per tutto questo, io lo odiavo, lo odiavo con tutto me stesso. Tutto ciò che fin da piccolo avevo desiderato e mai avevo ottenuto, lui lo possedeva, una famiglia felice, un po’ di affetto, degli amici, tutte cose che gli invidiavo ardentemente e che mai avrebbero fatto parte della mia vita. Mai ho capito cosa avessi fatto per meritarmi la mia condizione e non poter essere al suo posto, e forte è il peso di un’incredibile ingiustizia che grava su di me.
Lui non aveva colpa, non era la causa dei miei mali, ne ero consapevole, ma tormentarlo come avevano tormentato me placava l’ira del mostro che si era ormai da troppo tempo impossessato del mio corpo. Alla sera, quando ripensavo alla giornata appena trascorsa, avevo schifo di me stesso, dei miei comportamenti, sovente persino piangevo: sicuro di star commettendo irreparabili errori, ero succube della forte rabbia repressa, troppa perché io riuscissi a dominarla.

Non sono sempre stato così. Da piccolo avevo tanti sogni e l’innocenza dell’essere bambino faceva parte di me. Poi la vita mi cambiò, le persone mi cambiarono. La purezza svanì, prese il posto il rancore, ed io divenni suo burattino.
Non sono sempre stato così. Avrei voluto fare altre scelte; vorrei essere un altro; non ci sono riuscito.

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