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L'inchiesta

Caso Cambridge Analytica: Facebook è meno sicuro? Temete di essere stati derubati?

Sono sufficienti informazioni su 70 “Mi piace” messi su Facebook per sapere più cose sulla personalità di un soggetto rispetto ai suoi amici e 150 per saperne di più dei genitori del soggetto

I giornali Guardian e New York Times hanno pubblicato una serie di articoli che dimostrano l’uso scorretto di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte di un’azienda di consulenza e per il marketing online che si chiama Cambridge Analytica, specializzata nel raccogliere dai social network un’enorme quantità di dati sui loro utenti: quanti “Mi piace” mettono e su quali post, dove lasciano il maggior numero di commenti, il luogo da cui condividono i loro contenuti e così via.

Queste informazioni sono poi elaborate da modelli e algoritmi per creare profili di ogni singolo utente, studiando i “mi piace”, i commenti e tweet e tutti post che condividiamo. Non vi è mai capitato di consultare un sito internet per la vendita online di libri, poi passare a fare altro e all’improvviso vi trovate l’annuncio di quel libro che stavate cercando neanche mezz’ora fa? E così con mille altri esempi della nostra quotidianità perennemente connessa. Ora moltiplicate questo per milioni di utenti e pensate a qualsiasi altra condizione in cui la loro navigazione possa essere tracciata. Il risultato sono miliardi di piccole tracce, che possono essere messe insieme e valutate. Le informazioni sono di solito anonime o fornite in forma aggregata dalle aziende per non essere riconducibili a una singola persona, ma considerata la loro varietà e quantità, algoritmi come quelli di Cambridge Analytica possono lo stesso risalire a singole persone e creare profili molto accurati sui loro gusti e su come la pensano.

Sono sufficienti informazioni su 70 “Mi piace” messi su Facebook per sapere più cose sulla personalità di un soggetto rispetto ai suoi amici, 150 per saperne di più dei genitori del soggetto e 300 per superare le conoscenze del suo partner. Con una quantità ancora maggiore di “Mi piace” è possibile conoscere più cose sulla personalità rispetto a quante ne conosca il soggetto.

Ma cosa c’entra Facebook in tutto questo?

Nel 2014 un ricercatore dell’Università di Cambridge, Aleksandr Kogan, realizzò una app che prometteva di produrre profili psicologici e di previsione del proprio comportamento, basandosi sulle attività online svolte. Per utilizzarla, gli utenti dovevano collegarsi utilizzando Facebook Login, il sistema che permette di iscriversi a un sito senza la necessità di creare nuovi username e password, utilizzando invece una verifica controllata da Facebook.

E’ capitato anche voi, vero? Capita, banalmente, quando clicchiamo su quei test che Facebook ci propone del tipo “Chi saresti stato in una vita passata”, “Qual è la parola che descrive il tuo anno?”, “Come saresti se cambiassi sesso?”, e via dicendo: per poter partecipare al gioco accettiamo che Facebook entri in possesso dei nostri dati, dalla data di nascita all’email. Tre anni fa circa 270mila persone si iscrissero all’applicazione di Kogan utilizzando Facebook Login, accettando quindi di condividere alcune delle loro informazioni personali. All’epoca Facebook permetteva ai gestori delle applicazioni di raccogliere anche alcuni dati sulla rete di amici della persona appena iscritta. In seguito Facebook valutò che la pratica fosse eccessivamente invasiva e cambiò i suoi sistemi, in modo che le reti di amici non fossero più accessibili alle app che utilizzano Facebook Login, ma l’applicazione di Kogan fece in tempo a raccogliere i dati sulle reti di amici dei 270mila suoi iscritti, arrivando quindi a memorizzare informazioni di vario tipo su 50 milioni di profili Facebook.

E da qui prende forma il caso che sta scuotendo i media, sta facendo crollare i titoli di Facebook in borsa e ha fatto cadere il giovane Mark Zuckerberg dall’Olimpo 2.0: Kogan ha condiviso tutte queste informazioni con Cambridge Analytica, violando i termini d’uso di Facebook, il social network vieta infatti ai proprietari di app di condividere con società terze i dati che raccolgono sugli utenti, pena la sospensione degli account, provvedimento che può determinare la fine del tuo intero modello di business. A quanto sembra, nel caso di Cambridge Analytica la sospensione è arrivata molto tardivamente. Christopher Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica e principale fonte del Guardian per questa storia, sostiene che Facebook, però, fosse al corrente del problema da circa due anni. Come sostengono anche i legali dell’azienda, temendo una sospensione fu la stessa Cambridge Analytica ad autodenunciarsi con Facebook, dicendo di avere scoperto di essere in possesso di dati ottenuti in violazione dei termini d’uso e di averne disposto subito la distruzione. Se così fosse, però, non è chiaro perché Facebook abbia deciso di sospendere Cambridge Analytica solo venerdì 16 marzo, e solo dopo essere venuto a conoscenza dell’imminente pubblicazione degli articoli sul caso da parte del Guardian e del New York Times.

Tuttavia, analizzando a fondo il caso, Kogan non ottenne i dati sfruttando qualche errore o buco nel codice che fa funzionare Facebook, semplicemente sfruttò un sistema che all’epoca era lecito e contemplato nelle condizioni d’uso. L’integrità informatica di Facebook non è stata quindi violata in nessun modo ed è su questo punto che i legali del Social Network più famoso al mondo puntano per tranquillizzare gli utenti e ridimensionare l’accaduto. D’altra parte, però, il fatto che la pratica fosse lecita non riduce la sua portata o gli effetti che poi nei fatti ha avuto.

Quindi, la domanda rimane ed è lecita: Facebook è davvero sicuro? E ancora, a chi stiamo affidando i nostri dati sensibili?

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