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Il discomane

Aspettandolo dal vivo a Bergamo Jazz, ecco l’amore secondo Maceo Parker

"It’s All About Love" è l'ultimo lavoro del sassofonista. E Brother Giober ci parla anche dei Simple Minds, tornati con "Walk Between Worlds"

ARTISTA: Maceo Parker
TITOLO: It’s All About Love
GIUDIZIO: ***1/2

Maceo Parker è un sassofonista giamaicano di circa 75 anni ed ha una storia artistica di tutto rispetto. Negli anni ‘60 insieme al fratello Melvin ha militato nella band di James Brown dopodiché ha partecipato a numerosi progetti di alcuni dei padri del funk come George Clinton, Bootsy Collins, fino ad arrivare a Prince.

Dagli anni ’90, si è dedicato alla propria carriera solista, affermandosi come uno degli artisti più apprezzati dal vivo a livello mondiale. Per festeggiare il suo 75° compleanno, compiuto il 14 febbraio 2018, Parker pubblica It’s All About Love, suo primo studio album dal 2004. Il disco non lo ritrova solo nella veste di sassofonista, ma anche in quella di capace cantante. Ad accompagnarlo nel progetto, la WDR Big Band di Colonia, con Michael Abene agli arrangiamenti e alla batteria Cora Coleman, ex musicista di Prince e attualmente nella band di Beyoncé.

It’s all about love raccoglie una serie di canzoni tutte accomunate dalla circostanza di avere la parola amore nel titolo. Si tratta in particolare di cover, riproposte con uno stile scintillante, pieno di ritmo e di colore che hanno l’innegabile pregio di procurare allegria in chi le ascolta.

Certamente si tratta di musica molto diretta, senza tanti fronzoli, ma proposta con gusto straordinario. La cifra stilistica è quella del soul, quello classico, dove la voce è indubitabilmente nera, dove i fiati la fanno da padrone, dove il piano è saltellante e il ritmo è tutto o quasi.

Ne è un esempio tipico il brano di apertura, Who’s Making Love, un vecchio hit del 1968, cantato originariamente da Johnnie Taylor dove una cascata di sax, trombe e tromboni fanno da tappeto sonoro ad un ritmo serrato, nel mezzo del quale ecco un “solo” di chitarra di grande gusto, mentre la voce vagamente roca di Maceo Parker fa bella e inaspettata mostra, tra un’apertura melodica e un’altra che irrompono a sorpresa.

I brani si alternano tra quelli cantati e solo strumentali, come la successiva I’m in Love (una cover di Bobby Womack), dove a prevalere è la linea melodica più che il ritmo e protagonista è il sax di Maceo. A dir la verità il brano ha qualche cedimento di troppo verso l’easy listening ma alla fine, grazie anche ad un solo di trombone di tutto rispetto, dopo circa 6 minuti e passa giunge al termine in gloria lasciando un senso di felicità che non è poca cosa.

È poi la volta di Gonna Put Your Lovin’ in the Lay Way, che è la riproposizione di un vecchio hit degli Isley Brothers che nell’occasione ha una durata superiore agli 11 minuti e che è un po’ il manifesto della musica di Maceo Parker. È un brano dove vi è una piccola parte cantata che poi lascia libero sfogo all’estro dei musicisti, pieno di stop, ripartenze, cambi di ritmo.

https://www.youtube.com/watch?v=QR8IHyLo1tI

Sulla stessa lunghezza d’onda è la trascinante Love The One You’re With, uscita dalla penna di Stephen Stills e un tempo manifesto dell’amore libero. In questo contesto il valore del testo, ovviamente, viene del tutto meno, mentre ad emergere è l’arrangiamento, forte della presenza di un hammond in grado di far affiorare una sottile nostalgia verso alcune sonorità del passato. Ma è un attimo perché poi il coinvolgente arrangiamento dei fiati immerge l’ascoltatore in un clima festaiolo dal quale è bandita ogni nota di tristezza.

Love Won’t Me Wait è un vecchio brano del 1974 di Major Harris, riproposto negli anni successivi da Luther Vandross, John Legend e Seal. Si tratta di un “lentaccio” cantato con sufficiente e convincente trasporto che rappresenta una sorta di intermezzo un po’ avulso dal resto ma piacevole.

Il ritmo torna alto con Isn’t She Lovely dell’enorme Stevie Wonder. Che dire, il brano è di per sé bello o quanto meno ha una sua ragione pop. Nel caso Maceo Parker non riesce ad evitare la trappola di farne una versione un po’ troppo pulita, salvo notevole “solo” posto a metà del brano che alla fine contribuisce ad alzare il voto.

La conclusione del lavoro è affidata a I Love You a Bushed and a Peack, un vecchio brano degli anni ’50 firmato da Frank Lasser che ha visto, tra le altre, anche un’interpretazione di Doris Day. È forse la composizione che mi è meno piaciuta della raccolta, quella meno vicina al funk, al soul ed anche al jazz.

Maceo Parker cerca in tutti i modi di mantenere una certa atmosfera da musical che potrà anche piacere ad alcuni, a me meno, pur non dispiacendomi del tutto. Un bel disco, una sorpresa per me. Ricordo che Maceo Parker sarà al festival Jazz di Bergamo venerdì 23 marzo e che la sua musica è fatta per essere suonata live. A buon intenditor…

Se non vuoi ascoltare tutto il disco: Gonna Put Your Lovin’ in the Lay Away

Se il disco ti è piaciuto ascolta anche:
The Tower of Power: Great American Soulbook
Average White band: Person to Person
Stevie Wonder: Songs in the Key of Life

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ARTISTA: Simple Minds
TITOLO: Walk Between Worlds
GIUDIZIO: ***

I Simple Minds sono sulla scena musicale internazionale dalla fine degli anni ’70, quindi da circa 40 anni, un’eternità. Come per tanti altri gruppi dell’epoca, gli esordi sono stati caratterizzati da una ricerca sonora ai limiti della sperimentazione, dopodiché i primi successi commerciali hanno indotto il gruppo a virare verso una proposta musicale più accessibile ad un pubblico più vasto e di maggiore soddisfazione economica

L’immagine del gruppo è stata sempre accostata agli anni ’80, in quel periodo hanno dato il meglio e sono stati protagonisti di prima linea nel panorama musicale giovanile La loro musica è sempre stata fortemente condizionata dall’presenza di un’elettronica a volte persino ingombrante anche se, in genere, la loro proposta è stata di qualità sempre elevata. Di quegli anni il loro più grande successo, ossia Don’t You Forget about Me, un brano che Kerr e compagni, quando gli venne proposto, rifiutarono. Poi, buon per loro, si fecero convincere dalla casa discografica e fu successo mondiale.

Ad essere sincero l’elettronica non è mai stata la mia passione e quindi in genere molta musica di quegli anni neppure. Ma i Simple Minds li ho sempre ascoltati al pari di altri gruppi come i Depeche Mode e i Tears for Fears che mi sembravano qualitativamente superiori alla media.

Finiti gli anni ’80 la band di Jim Kerr ha iniziato una parabola discendente che nello scorso decennio ha conosciuto il punto più basso, relegando i Simple Minds a semplice fenomeno nostalgico. Le ragioni del declino sono state molteplici: una ispirazione venuta meno, il cambiamento delle mode e per stessa ammissione di Kerr in una recente intervista, la constatazione sopraggiunta con gli anni che oltre la musica vi fosse pur altro (ancor di più se si è raggiunta una certa pax economica).

Dopodiché negli ultimi anni i Simple Minds sono tornati “on stage”, hanno di nuovo considerato la musica al centro della propria vita. Così nel 2014 hanno dato alla luce l’album Big Music, un lavoro di buon livello che li ha imposti nuovamente al pubblico ed anche alla critica, mai troppo tenera anche nei tempi migliori; poi la pubblicazione di Acoustic del 2016, dove i loro brani più noti venivano presentati privi di quell’epicità che era un po’ il marchio di fabbrica del gruppo. Nonostante ciò il lavoro ha avuto una buona accoglienza anche da parte della critica che non ha potuto disconoscerne la qualità.

A breve distanza da Acoustic ecco uscire, un po’ a sorpresa, Walk Between Worlds, titolo emblematico, quasi a voler indicare una ispirazione multiforme, l’esigenza di considerare influenze proveniente da fonti diverse. Beh, nulla di tutto questo, qui di moderno e di nuovo c’è poco ma questo non significa che il lavoro sia mal riuscito anzi. Gli amanti del gruppo, delle atmosfere degli anni ’80, troveranno tutto ciò di cui ai tempi rimasero affascinati e forse anche un po’ di più, perché il tentativo in alcuni casi di privare i brani, almeno un poco, della magniloquenza passata è in alcuni casi evidente e riuscito. La necessità di dare al tutto un tocco un po’ più pop, privilegiando il ruolo della melodia, dando la giusta enfasi ai passaggi più accessibili della loro musica è palpabile.

A chi scrive è abbastanza evidente il parallelo con l’ultimo lavoro degli U2: una musica che rispetta il passato, i fan della prima ora, ma che senza stravolgere la cifra stilistica caratteristica, cerca di gettare uno sguardo al futuro, senza per questo far apparire il gruppo una macchietta del passato.

Walk Between Worlds presenta otto brani, un numero adeguato, della durata media di poco superiore a 4 minuti, circostanze sufficienti a bandire la noia. La versione deluxe accoglie tre ulteriori brani.

Detto ciò non è niente male Magic posta all’inizio del lavoro, forse il brano più immediato che richiama da vicino le atmosfere degli anni ’80, come di buon livello è Summer, ancora saldamente legata al passato del gruppo, con il basso a pompare, forse troppo, a sostegno di un ritmo incalzante che però non dispiace. Non sarà un capolavoro ma c’è di peggio in giro.

Originariamente il disco avrebbe dovuto intitolarsi Utopia come la terza composizione della raccolta salvo poi un ripensamento all’ultimo di Jim Kerr che al proposito in un’intervista ha detto: “Utopia è un titolo inflazionato, è una parola che di recente hanno usato Björk e David Byrne, sono contento di non averla utilizzata. Per me utopia significa un ideale, qualcosa di trascendente. Può essere un luogo, un’immagine, un sogno. Può essere la musica. Quando sei completamente immerso in un’arte, ti scordi del mondo che ti circonda e in qualche modo entri a far parte di un’utopia”. Ad ogni modo il brano rispetto ai precedenti è più complesso e articolato e benché non abbia la cifra pop, propria dell’intero disco, suona bene, alla stregua di una composizione adulta, realizzata non necessariamente per piacere.

Decisamente meno riuscita è la tronfia The Signal and the Noise, dove la superproduzione non riesce sino in fondo a occultare una certa carenza di ispirazione o forse, visto da un’altra angolazione, la melodia laddove percepibile è annegata in un mare di rumore, da cui il titolo.

Ancora una produzione propria degli anni ’80 è quella di In dreams, alla quale Jim Kerr aggiunge un’interpretazione che richiama totalmente quelle dei grandi successi del passato, peccato che il brano non sia così riuscito.

Il brano migliore è Borrowland Star, dove improvviso irrompe il suono di una sezione di violini, di tappeto a Jim Kerr il quale forse nel modo di cantare assomiglia sin troppo al Duca Bianco. La composizione seppur priva di una linea melodica evidente, richiama da vicino i primissimi lavori, quelli un attimo più sperimentali e, a me, piace molto.

Ugualmente bella è la title track, che si avvantaggia di un abbondante, seppur delicato, uso di archi che addolcisce un incedere deciso che questa volta è anche sostanza e non solo forma. Piacerà ai fan più sfegatati ma convincerà anche nuovi adepti.

Chiude il disco Sense of Discovery: detto del richiamo ad Alive and Kickin, il brano è uno dei meglio riusciti dell’intero lavoro rappresentando una sorta di ponte con il passato ma con aperture del tutto nuove e meritevoli di essere esplorate. Così il brano, una sorta di ballata sospesa, è estremamente piacevole e convincente.

Delle Bonus Track mi piace in particolare ricordare Dirty old town, una cover del cantautore folk inglese Ewan McColl nel 1949 registrata dal vivo e proposta nella scaletta del tour dello scorso anno in solidarietà con la città di Manchester colpita da un attentato, il 22 maggio 2017, nel quale persero la vita 23 persone al termine del concerto di Ariana Grande.

In definitiva un disco riuscito, seppur un gradino sotto Big Music nella quale è manifesta la volontà del gruppo scozzese di fare musica, di produrre arte. L’entusiasmo è palpabile, la voglia innegabile. I risultati non ancora del tutto raggiunti, ma quelli sin qui ottenuti con Walk Between the worlds lasciano ben sperare

Se non vuoi ascoltare tutto il disco: Borrowland Star

Se il disco ti è piaciuto ascolta anche:
Tears for Fears: Tears Roll Down (Greatest Hits 82-92)
U2: Songs of Experience
Talk Talk: The Colour of Spring

Legenda Giudizio:

*        era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema
**      se non ho proprio altro da ascoltare….
***    in fin dei conti, poteva essere peggio
****  da tempo non sentivo niente del genere
***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

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