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La testimonianza

Salvioni sul rapimento Moro: trattativa o fermezza? Ho ancora mille dubbi

L'avvocato Carlo Salvioni racconta l'alfa e l'omega del rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, vissuto da lui a Bergamo in veste di persona impegnata politicamente all'interno del Partito Socialista italiano.

L’avvocato Carlo Salvioni racconta l’alfa e l’omega del rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, vissuto da lui a Bergamo in veste di persona impegnata politicamente all’interno del Partito Socialista italiano.

16 Marzo 1978. Era un giovedì mattina, in Tribunale a Bergamo tutti o quasi gli avvocati erano riuniti per l’udienza pubblica delle cause civili. Incontro un amico e collega, Alberto Bertolotti che è stato vicesindaco per il Partito Socialdemocratico con Luciano Pezzotta nei primi anni Settanta. Mi dice: “Hai sentito la notizia? Han rapito Aldo Moro“. A Roma in via Fani, scorta uccisa. Sono rimasto impietrito. Mai era avvenuto nella storia repubblicana il rapimento di un politico, di quella portata, poi…

Sono quei momenti, quegli eventi che non ti scordi mai: come le torri gemelle, l’invasione dei carrarmati in Cecoslovacchia nell’agosto del ’68, gli attentati a Giovanni Falcone e poi a Paolo Borsellino, l’uccisione di John Kennedy, la strage di piazza Fontana. Momenti terribili in cui ti chiedi: ma in che mondo vivo?

Cinquantacinque giorni dopo ero a Treviglio, sempre per ragioni di lavoro. Durante una pausa sono uscito dalla Pretura in piazza Insurrezione insieme ad alcuni colleghi. Stupiti vediamo che la piazza si va riempendo. Riempiendo di gente. Persone con o senza bandiere. Non parlavano, nessuno slogan… Un silenzio del tutto irreale. Avevano appena trovato il corpo senza vita dello statista nella Renault 4 rossa: un’altra immagine indelebile e scioccante.

Nel mezzo, tra marzo e maggio, tutta la vicenda politica, le lettere, le riunioni, le divergenze su come affrontare questo momento: con la linea della fermezza, cioè senza trattare con le Brigate Rosse o concedendo ai rapitori tutto o in parte quello che chiedevano?

Io ero membro dell’esecutivo regionale del Partito Socialista: qualche giorno dopo l’assalto vengo convocato d’urgenza dal segretario lombardo Carlo Polli per esaminare la questione proprio sotto il profilo dell’approccio ai terroristi. Alle arrivo a 21 a Milano in sede in viale Lunigiana. Ci raggiunge da Roma Gianni De Michelis, inviato dal segretario nazionale Bettino Craxi col compito di spiegare ai dirigenti lombardi la linea assunta dal partito.

Noi del Comitato regionale eravamo divisi, ma a vari livelli c’erano spaccature. Sandro Pertini, al contrario di Craxi, era per la fermezza, nessun accordo coi rapitori, come a Bergamo Salvo Parigi e in genere gli uomini della Resistenza. Anch’io personalmente ero orientato sulla linea dell’intransigenza.

La riunione durò ore, finì alle prime luci dell’alba. Fu molto intensa… alla fine De Michelis, persona di grandi capacità, ci convinse che la strada più giusta era la strada della trattativa perché era volta a salvare la vita di un uomo. Il principio costituzionale e l’ideologia socialista sono fondati sull’uomo, sull’umanesimo, perciò la salvezza di una persona – che peraltro non era una persona qualunque ma un leader politico di cui il Paese aveva bisogno – era in sintonia con la decisione del partito a livello nazionale. E noi ci convincemmo.

Naturalmente le polemiche che ne seguirono furono molto vivaci e ancora oggi le opinioni sono contrastanti. Ancora oggi io stesso ho dei dubbi. Allora comunque, per la linea morbida si espressero il presidente della Repubblica Giovanni Leone, il democristiano Amintore Fanfani e, su tutti, papa Paolo VI.

Nessuno convinse la segreteria della Dc, con Giulio Andreotti e Benigno Zaccagnini, nessuno convinse Enrico Berlinguer e il Partito Comunista. D’altronde la posizione del Pci è comprensibile dal punto di vista politico, della difesa del ruolo costituzionale del Pci e per segnare una distinzione chiara e netta dalle Br. Br che, come scrisse in seguito Rossana Rossanda, facevano parte dell’album di famiglia dei comunisti: non erano fascisti.

I socialisti non avevano questi problemi, ma anche Craxi aveva una necessità strettamente politica: primum vivere, dimostrare che il Psi era autonomo rispetto ai due grandi partiti, smarcarsi dall’azione dei due “grandi”, la Dc e il Pci.

E io? Il mio sentire un po’ garibaldino era per il non si tratta e non si discute. Cerchiamo di salvare Moro ma in altro modo, con servizi segreti, polizia e carabinieri, senza cedere ai ricatti dei terroristi. Peraltro in quel momento sembrava che le Br fossero invincibili e si temeva per la tenuta della democrazia, c’era paura per il Paese. Eppure la democrazia italiana, definita fragile da esperti e studiosi, diede una risposta forte e riuscì a venir fuori indenne da una situazione così grave.

La posizione dei socialisti fu utile lo stesso: dette l’idea che non ci si rassegnava alla perdita di una persona, di un essere umano. Il prezzo più alto lo pagò la Democrazia Cristiana: non fu più in grado di esercitare l’egemonia fino a quel momento quasi naturale.

Infine le Br. Col rapimento Moro toccarono il massimo livello di pericolosità, ma quell’esecuzione fece sì che venissero isolati nel Paese. I terroristi vennero emarginati da chiunque aveva anche in minima parte in precedenza capito le loro ragioni. Da lì il declino e la disgregazione.

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