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L'intervista

Donadoni: “Teatro è come passare nei rulli dell’autolavaggio, ma oggi va lo show”

L'attore, in scena con "Play Strindberg", parla di teatro e della sua Bergamo che è "un palcoscenico naturale, di più, una serie di palcoscenici naturali. Shakespeariani. Pensate lo spazio davanti al Tribunale: quanto ci starebbe bene 'Sogno di una notte di mezza estate'".

Non è un’intervista quella che Maurizio Donadoni, in scena fino a mercoledì sera al Teatro Sociale con Play Strindberg, rilascia a Bergamonews. No, è una lezione appassionata e scoppiettante sul teatro di oggi, anzi potremmo dire sul non-teatro di oggi. La lezione di un attore che ama sorprendere perfino se stesso, che sperimenta, si immedesima, urta, non sta alle regole, nemmeno quelle del regista: “Eh no, io non devo eseguire quello che un regista mi indica, devo trasformare le indicazioni a modo mio”. Tutt’altro che facile, certo, “ma io mi sento un garibaldino che si trova sempre davanti dei Cavour increduli e diffidenti”.

Non desiste certo per questo e non cessa di essere se stesso. Vale a dire un pozzo di idee, di scintille. Anche su Bergamo, la sua Bergamo. “Bergamo è un palcoscenico naturale, di più, una serie di palcoscenici naturali. Shakespeariani. Pensate lo spazio davanti al Tribunale: quanto ci starebbe bene Sogno di una notte di mezza estate. È un po’ il mio pallino, l’ho suggerito e proposto tante volte: un seminario con dei giovani e la costruzione dello spettacolo d’estate, lì”. Ma non è tutto: “Immaginate lo slargo davanti al cimitero: lì, è lo sfondo per Antonio e Cleopatra. O ancora, piazza della Cittadella: perfetta per ambientarci l’Otello“. Ecco sfornato un progetto affascinante e… possibile? “Mah, vedremo”.

Speriamo che ci si butti come fa di solito: “Sono proprio bergamasco. Ho, e lo dico in positivo, l’autismo dei bergamaschi che quando si fissano su un traguardo non guardano ai lati e vanno avanti dritti finché non lo raggiungono. E ce la fanno. Però… Un bergamasco ha inventato il bimotore, ma non ha saputo come venderlo perché era troppo concentrato sul progetto e non si è curato del resto, tipo le public relations. Così l’ha brevettato la Fiat”.

Lui è un po’ così: “Mi immergo in quello che faccio, voglio il teatro, non lo spettacolo. E così trascuro altre cose importanti”. E che differenza c’è tra teatro e spettacolo? “Il teatro si sta perdendo oggi, oggi va lo show: passare due ore, noi sul palco, lo spettatore giù, due mondi diversi, uno ordina l’altro esegue, come al ristorante. Il teatro è un servizio”. Esagera, ma non poi molto: “Se hai un’idea i produttori ti domandano subito: chi c’è? Non ti chiedono il titolo, il contenuto, vogliono il nome. Poi non importa se non sa recitare come si deve o se quello che offri è tutto tranne che teatro vero”.

Maurizio Donadoni

E il teatro vero per Maurizio Donadoni deve colpire: “Una sorta di autolavaggio, dove passi attraverso i rulli. Poi esci. Magari anche più sporco, ma sei passato tra quei rulli. Non sei più lo stesso di prima”.

Invece “questo è il tempo del fast, e ci sarebbe tanto bisogno di slow theatre. D’altronde cosa dobbiamo aspettarci se oggi, per legge, è un algoritmo che definisce come inquadrarti nel mondo dello spettacolo: quanto pensi di produrre, di incassare, di replicare?”.

In questa realtà lui prosegue per la sua strada, peraltro intensa, ed è forse il solo a sapere a memoria una lunga parte del Finnegan’s Wake di James Joyce con parole di fantasia e di lunghezza infinita: “L’ho presentato a Napoli JabberJoyce, insieme alla bravissima Francesca della Monica“.

A Bergamo intanto prende applausi, insieme a Maria Paiato e Franco Castellano per Play Strindberg di Friedrich Dürrenmatt, diretto da Franco Però: “Godibile, semplice, c’è una buona interazione tra la platea e il palcoscenico. Lo spettatore si diverte anche se certo non vorrebbe vivere quello che sta guardando in scena”.

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