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Musica

Il discomane

Mauro Ermanno Giovanardi: gli anni ’90, ovvero “La mia generazione”

La voce dei la Crus reinterpreta in modo originale e accattivante brani della scena indipendente italiana dei primi Novanta: una stagione intensa. Ma Brother Giober ci racconta anche l'ultima perla di Van Morrison e Liam Gallagher.

ARTISTA: Mauro Ermanno Giovanardi
TITOLO: La mia generazione
GIUDIZIO: ****

Mauro Ermanno Giovanardi è uno dei testimoni i più rappresentativi di una stagione irripetibile per la musica italiana, quella dei primi anni ’90, durante i quali il rock indipendente italiano divenne adulto svincolandosi dai riferimenti d’oltreoceano, assumendo una propria precisa identità indipendente. La scintilla che diede il via al tutto, probabilmente, fu la decisione della Polygram di fondare un’etichetta, la Black Out, riservata a promuovere nuovi artisti nostrani, per poterli, anche grazie a strategie di marketing per nulla improvvisate, farli conoscere ad un pubblico giovane e desideroso di identificarsi con un movimento musicale proprio. Fu da questo momento che una generazione di artisti abituata a cantare in inglese e a suonare dinnanzi ad un pubblico sparuto, iniziò a proporsi in italiano trovando un riscontro di pubblico sempre più importante e, tutto sommato, inatteso.

La nuova scena musicale si sviluppò soprattutto nelle città di Milano, Napoli, Roma e Firenze in un contesto socio politico fortemente condizionato dalle vicende di tangentopoli. In questo ambiente, Afterhours, Ritmo Tribale, Casino Royale, 99 Posse, Alma negretta, Tiromancino, Daniele Silvestri, Max Gazzé, Mau Mau , Ligabue, CSI mossero i loro passi, introducendo nuovi modi espressivi e divenendo, piano piano, fenomeni di mercato. La musica risentiva di una certa rabbia, i suoni a volte duri e i modi di esprimersi schietti.

Tra questi artisti c’erano anche i La Crus gruppo di cui Mauro Ermanno Giovanardi era la voce. Il modo di cantare di Giovanardi è molto particolare così come il tono della sua voce che è molto basso. Ciò può anche non piacere perché è indubbio che Giovanardi non possa cantare qualsiasi cosa tuttavia il timbro è caldo, colloquiale e in grado di dare ad ogni interpretazione un senso di intimità.

La mia generazione, come dice il titolo, è una sorta di album tributo a un’epoca e il tentativo di far conoscere a chi non ne ha avuto la possibilità alcune delle gemme di quegli anni che per una serie di motivi diversi si erano un po’ perse nei meandri della memoria. Il lavoro alla fine è decisamente riuscito e sarebbe limitante classificarlo come un disco di cover perché di ogni versione Giovanardi ne fa cosa sua, così che alla fine tutto risulta al contempo personale e comunque in grado di dare una fedele rappresentazione di un’epoca. La sensazione finale è quella di trovarsi di fronte al disco di un cantautore tanto il processo di assimilazione ha raggiunto il massimo grado di identificazione.

Come dice l’autore circa la scelta di ogni brano “le canzoni le ho scelte partendo dal testo. Alcuni brani sapevo già di farli perché me li sentivo proprio cuciti addosso, per altri ho dovuto passare in rassegna la discografia per capire quale fosse il più adatto. Se vuoi fare un’operazione veramente seria e onesta devi far sì che ogni testo sia appiccicato addosso, che tutti i versi arrivino allo stomaco. Per cui quando te la senti davvero tua puoi avere la forza di fare una versione vera…”. Ed è forse per questa ragione che Giovanardi tra una traccia e l’altra canta, rappa e declama con una naturalezza che è testimonianza di un duro e lungo lavoro di appropriazione di ogni singolo brano. Questo non è un disco che si produce in una settimana e nemmeno in un mese: gli arrangiamenti delle canzoni sono a volte semplici ed altre volte complessi e persino orchestrali.

Musicalmente ogni singolo brano subisce un’operazione di ingentilimento, i suoni sono più levigati rispetto agli originali; il tentativo è quello, evidente, di dare rilevo alla bellezza della melodia, all’efficacia del testo, relegando in secondo piano quella l’aggressività giovanile, che oggi apparirebbe anacronistica e forse retorica se ricondotta a un artista di più di quarant’anni. Così le versioni proposte risultano spesso diverse dalle originali e avvolte da un mood lento, introspettivo  che tuttavia mai nulla ha a che vedere con la noia.

E’ il caso, ad esempio, di Aspettando il sole, il brano di punta dell’intero album che è di Neffa, un artista che frequenta ambienti del tutto diversi da quelli di Giovanardi che però ne offre una versione, bella, rispettosa dell’originale ma nello stesso tempo personale.

Vi sono alcune raffinatezze a livello di arrangiamento che veramente lasciano basiti come, in Lieve, il suono dell’armonica in sottofondo che crea un contrasto ad effetto con la voce profonda dell’artista.

In altre parti del lavoro, il suono e l’arrangiamento diventano essenziali, per rimarcare lo spirito, oltre che critico, anche libero di quegli anni: Huomini che vede la partecipazione della star mediatica Manuel Agnelli è un rock’n’roll secco, duro che fende l’aria come una lama tagliente.

Vi è poi una ripresa di certo pop d’autore negli arrangiamenti che nobilitano alcuni brani già originariamente belli che nella nuova versione escono ulteriormente rafforzati. Così è per la meravigliosa Non è per sempre degli Afterhours, che con il nuovo arrangiamento acquisisce ulteriormente dolcezza e una patina pop che ricorda le cose più belle degli Stadio o per Baby Dull, brano degli Ustmamò, di cui, grazie anche alla presenza di Rachele Bastrenghi e di un arrangiamento intelligente, è possibile apprezzare tutta la bellezza dell’armonia, nella versione originaria nascosta da un approccio forse troppo e inutilmente aggressivo.

Sulla stessa lunghezza d’onda è Forma e Sostanza dei CSI che, nella nuova versione, abbandona la sua veste “combat” per diventare un brano dove il blues si fonde all’elettronica molto anni ’90 e la protesta affiora solo in superficie qua e là ma resta soprattutto a livello di testo.

Vi sono poi brani che rispetto all’originale appaiono ancor più interiorizzati: così accade per Cose difficili dove l’originario reggae dei Casino Royale viene sostituito da un ritmo raffinato nel quale jazz, blues, e melodia italiana confluiscono alla perfezione o per Lasciati dei Subsonica dove la cornice sonora originale del tutto consona a descrivere uno stato d’animo depresso, nella versione di Giovanardi viene sostituita da un arrangiamento più morbido e musicalmente riuscitissimo.

Cieli Neri dei Blue Vertigo vede la presenza di Samuel Romano dei Subsonica in una versione quasi da camera con archi in primo piano che si sposano alla perfezione con le voci; alcune reminiscenze quasi beat anni ’60 rendono il brano ancora più godibile.

Sulla stessa lunghezza d’onda è Stelle buone di Cristina Donà, dove il riferimento immediato mi pare quello di Fabrizio De Andrè che trovo anche in Nera Signora, dove il suono dell’armonica fende un arrangiamento complesso, orchestrale sul quale si posa alla perfezione una melodia splendida.

Chiude il tutto Primo Dio dei Massimo Volume dove, nonostante un certo arrotondamento dei suoni rispetto all’originale, il disagio, l’inadeguatezza generazionale che erano ben percepibili nell’originale restano ancora ben presenti.

La mia generazione è un lavoro profondo, perfettamente riuscito che a me è servito per andarmi a riascoltare i principali prodotti di un movimento musicale italiano forse sottovalutato, ma a torto. Tutte le canzoni presenti sono belle, così come lo sono gli originali assolutamente da riscoprire.

Se non vuoi ascoltare tutto il disco:
Aspettando il sole

Se ti è piaciuto ascolta anche:
Fabrizio De André – Creuza de Ma
Afterhours – Hai Paura del buio
La Crus – Crocevia

In breve:

Van MorrisonRoll With The Punches ****

van morrison

Van Morrison, se non è il mio artista preferito, è comunque “a podio” e quindi il giudizio non è mai del tutto obiettivo. Devo ammetterlo. Roll With The Punches è il 37°o disco del vecchio irlandese che di anni ne ha oramai 72. Settantadue e non sentirli perché la voce resta fenomenale e la voglia, l’entusiasmo di fare musica intatti. Questa nuovo lavoro ha l’unico torto di uscire dopo quel capolavoro che è Keep Me Singin’ e di presentare un suono e composizioni un poco più convenzionali rispetto a quest’ultimo.

Se infatti il predecessore era fatto di inediti composti per l’occasione dallo stesso Van, questo è diviso quasi equamente con cover prese dal repertorio di campioni della musica che affonda le sue radici nel blues come Bo Diddley, Sam Cooke, Mose Allison. È quindi un album che piacerà moltissimo a quelli che hanno apprezzato l’ultima fatica dei Rolling Stones, un po’ meno alle persone che amano il fine autore ed interprete di ballate più introspettive o il consumato musicista che fa dello swing la sua fonte di maggiore ispirazione.

Fatta questa premessa l’album mantiene per tutta la sua durata una qualità artistica di assoluto livello e fila via che è un piacere senza che mai affiori un filo di noia. Tra i brani più belli Goin’ to Chicago di Count Basie, Benediction di Mose Allison, Automobile Blues di Lightnin’ Hopkins. Ancora un’eccellente prova del vecchio Van.

Liam Gallagher – As You Were ***1/2

In questo caso la premessa è del tutto opposta: gli Oasis non mi sono mai piaciuti, forse a torto, perché che abbiano fatto delle belle canzoni e che queste abbiano avuto un successo planetario è indubbio. Semplicemente a loro ho sempre preferito i più raffinati Blur e ho poco digerito i comportamenti un po’ troppo disinvolti di chi dimentica che il successo è qualcosa che ti viene attribuito da altri verso cui, quindi, devi essere riconoscente e rispettoso. Non riesco neppure a distinguere i fratelli, so come si chiama questo ma l’altro no e, di loro, non possiedo alcun disco o forse uno solo ancora incellofanato. Insomma, mi stanno sulle balle!

Il fatto che mi stiano sulle balle potrebbe però essere un buon punto di partenza per una recensione obiettiva. Forse… Sta di fatto che As You Were mi è piaciuto. Non è un capolavoro ma è certo un bel disco, composto con sincerità, che non fa sconti alle mode attuali. Appunto: forse è un po’ demodé, i suoni vintage, la musica è puro british pop anni ’90, quello che ha i meravigliosi Squeeze antesignani del genere, quello che si rifà ancor oggi in modo spudorato ai Kinks e ai Beatles.

Ma francamente, chissenefrega se le canzoni suonano bene. Non tutte per la verità ma Wall of Glass potrebbe essere uscita dalla penna di quel genio di Paul Weller e non vi è dubbio che Bold puzzi di baronetti di Liverpool lontano un miglio; ma non è forse così per un buon 50% della musica prodotta negli ultimi 50 anni? E che Paper Crown possa essere una outtake degli Wings di sir McCartney non sarò certo il solo a sostenerlo.

liam gallagher

Vi è persino qualche riconoscimento agli odiati Blur, come Greedy Soul che rende Gallagher più simpatico, almeno a me. Allora val la pena sturarsi il naso e lasciarsi andare all’ascolto, dimenticando la faccia tardo adolescenziale di Liam Gallagher, non facendosi condizionare dal fatto che sia convinto di essere il discepolo più degno di John Lennon o di Ray Davies. In fin dei conti è solo un (finto) ragazzaccio.

Legenda Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema
** se non ho proprio altro da ascoltare…
*** in fin dei conti, poteva essere peggio
**** da tempo non sentivo niente del genere
***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

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