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Grande Guerra, Pillola 140: l’impero al capolinea, la diplomazia avanza fotogallery

L’impero stava concludendo la sua storia millenaria, tra la defezione di una parte delle sue truppe e la resistenza eroica di un’altra parte: a questo punto, alla guerra guerreggiata stava cominciando a sovrapporsi la diplomazia.

Il 28 ottobre 1918, mentre l’impero asburgico stava sgretolandosi implacabilmente, sotto i colpi dei nazionalismi, l’esercito imperiale, schierato sul fronte italiano, non dava evidenti segni esterni di cedimento: in realtà, proprio il 28, le truppe che dovevano fungere da rincalzo sul Grappa dimostrarono come la situazione fosse critica, quando un quinto dei reparti si rifiutò di entrare in azione.

Boroevič stava già meditando un ripiegamento dal Veneto, eppure, dopo quattro giorni di lotta, le artiglierie austroungariche erano ancora riuscite a mettere in seria difficoltà la logistica degli attaccanti: i ponti gettati sul Piave erano stati quasi sempre distrutti dopo breve tempo e le teste di ponte ricevevano rinforzi col contagocce, quando non erano addirittura isolate. Insomma, la situazione era critica per entrambi i contendenti.

Il generale Caviglia, resosi conto di essere giunto al punto di svolta della battaglia e convinto di essere prossimo al momento di rottura della resistenza avversaria, nelle prime ore del pomeriggio, aveva emanato il suo celebre ordine del giorno del “forse per un secolo”, in cui esortava le proprie truppe allo sforzo finale: il suo collega Giardino, sul Grappa, dopo aver contenuto i furiosi contrattacchi della 50a divisione austroungarica contro il Valderoa, si stava preparando all’attacco finale, previsto per l’indomani.

A Pederobba, il gittamento di un ponte, quasi subito distrutto nuovamente, permise il passaggio di qualche reparto italo-francese della 12a armata: con questi scarsi rinforzi, gli uomini della testa di ponte mossero all’attacco verso Alano e Valdobbiadene. Nella testa di ponte di Sernaglia la situazione era assai precaria: i ponti gettati di fronte al nucleo principale d’assalto, ossia i corpi dell’8a armata erano colpiti non appena terminati e questo permetteva il passaggio del Piave, ancora in piena, a poche truppe alla spicciolata. Da Vidor a Case Biadene e da Nervesa alla Priula i ponti duravano pochissimo e i rifornimenti per i soldati sulla sinistra del fiume avvenivano con aviolanci e grazie a coraggiosi nuotatori.

Nonostante questa situazione, decisamente sfavorevole, anche in questo settore, nella giornata del 28, i soldati delle teste di ponte mossero all’attacco, riuscendo a conquistare Falzè con apparente facilità. Facilmente avanzarono anche le truppe del XVIII CdA, nel settore delle Grave: dai ponti di Salettuol e Palazzon, costruiti per i britannici, i soldati italiani si mossero su due direttrici, verso la statale Treviso-Udine e verso Susegana, allo scopo di sbloccare l’VIII CdA, che era fermo sulla riva del Piave. A loro volta, le truppe di Lord Cavan, superata la difesa del XVI corpo austroungarico, entrarono a Tezze, giungendo a ridosso della apparentemente ancora ben difesa Kaiserstellung, sul Monticano.

L'impero al capolinea

La verità è che gli alleati non avevano percezione di quanto stava accadendo nelle retrovie avversarie: i soldati imperiali che si trovavano di fronte spesso combattevano col consueto valore, ma, dietro di loro, stava dilagando il caos. I reparti che si ritiravano dalla prima linea, ormai consumati dallo scontro, non trovavano rincalzi pronti: intere divisioni si rifiutarono di combattere o si sfaldarono, secondo la propria composizione etnica.

Nel punto di massima criticità, ovvero di fronte al XVIII CdA italiano e dell’armata britannica, nel pomeriggio del 28 ottobre, la maggior parte delle truppe delle 3 divisioni inviate dal comandante della 6a armata, Schőnburg, a tamponare la falla, disertò: a difendere la linea giunsero soltanto 8 battaglioni, rimasti fedeli al Kaiser, mentre anche il XVI corpo era ormai in disordinata ritirata dalla linea del Monticano.

A questo punto, alla guerra guerreggiata stava cominciando a sovrapporsi la diplomazia: mentre Boroevič domandava spasmodicamente a Vienna istruzioni, nel tentativo di salvare almeno parte dell’esercito per difendere il trono, dallo Hofburg giungeva al generale Weber a Trento l’ordine di trattare la resa.

L’impero stava concludendo la sua storia millenaria, tra la defezione di una parte delle sue truppe e la resistenza eroica di un’altra parte. Sul Grappa, ad esempio, i soldati austroungarici resistettero agli attacchi del IX e del VI CdA, rintuzzandoli, sia il 29 che il 30 ottobre, tanto che Giardino li fece sospendere, aspettando che la manovra d’aggiramento messa in atto dalla 12a armata francese di Graziani desse i suoi frutti.

Anche nei diversi settori di fronte e sulle navi imperiali, iniziavano gli ammutinamenti: mentre Weber organizzava la spedizione di Kamillo von Ruggera a chiedere l’armistizio, di cui parleremo più avanti, la linea del Piave stava cedendo.

Al vecchio “leone dell’Isonzo” e ai suoi valorosi Kämpfern, l’imperatore Carlo chiese tempo: il tempo per ottenere delle condizioni armistiziali migliori. Ma il tempo stava scadendo. Il 29, stante il calo della piena del Piave, in concomitanza con una diminuzione dell’efficacia dei tiri di distruzione dell’ artiglieria austroungarica, l’8a armata di Caviglia potè attraversare il fiume al completo, riversando sugli avversari tutta la propria potenza: ormai, i CdA italiani e la 2a divisione d’assalto riuscivano ad avanzare con relativa facilità, interrompendo i contatti tra la 5a e la 6a armata austroungarica.

Quest’ultima, per evitare la propria completa distruzione, iniziò una ritirata dietro il Livenza, scoprendo, a sua volta, il fianco del Gruppo “Belluno”, che cominciò ad arretrare verso il Bellunese.

Prima della sera del 29 ottobre 1918, anche la 5a armata, la gloriosa Isonzoarmee delle undici battaglie, abbandonò il basso Piave, ritirandosi verso nord: era il segnale inequivocabile del crollo. La battaglia finale era terminata: iniziava la rotta.

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