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Il punto di valori

Formazione delle giovani generazioni tra dubbio e verità

Se allora un Paese non ha più questa fibra dentro di sé, non può sopravvivere, né nell’economia come dentro la sua anima più profonda.

La semantica dei nostri tempi rivela la natura del ciclo delle generazioni e il loro nesso con la Tradizione, ovvero con ciò che si deve “trasportare” da una età del mondo ad un’altra.
La verità dei tempi, insieme al dubbio che la fa crescere in ogni tempo. Oggi, peraltro, non si parla più di “cultura” ma solo di “formazione”, non ci si riferisce più al carattere ma all’indole naturale o, peggio, agli istinti, non si richiede più la sapienza, ma solo la performance.

La sapienza è atto dell’uomo intero, la “performance” l’esercizio di un uomo che ripete. E l’efficacia, azione metafisica, diviene l’esattezza formale che, come già anticipava Nietzsche in un suo testo giovanile, “verità e menzogna in senso extramorale”, trasformano la rete concettuale con cui gli uomini catturano la natura e i loro stessi sensi in un solo sistema, che poi siamo abituati a chiamare “verità”. L’esattezza è la verità di un piccolo orto chiuso, l’efficacia la potenza dispiegata del sapere.
L’arte è poi oggi semplice critica del presente, indipendentemente dalle sue motivazioni; il sapere, ovvero la cultura, è in gran parte la disposizione alla lotta contro l’evidenza, la natura degli uomini è ritenuta un falso, ovvero la costruzione gnostica di un genio cattivo.

Ciò che è “contro” è sempre vero, l’affermazione di un valore, di una verità oggettiva, di un fine metafisico muove al riso, nessuno oggi pensa in termini positivi, costruttivi, etici. È quasi come se i Catari avessero vinto, ma con grande ritardo: il Mondo è stato creato da un Genio Maligno, la Natura del Bene è nascosta su questa terra, la Salvezza non esiste se non nella negazione della Realtà e di Sé. Il postmoderno si finalizza alla scoperta del “male”, che è poi l’essenza del Reale, dell’uomo, della Realtà.
Sarebbe interessante qui seguire le linee della Gnosi catara dal Mille alla Riforma luterana e poi all’Illuminismo, fino alle grandi rivoluzioni chiliastiche che hanno caratterizzato il Mondo Moderno, ma non è questo il primo obiettivo del nostro discorso.

Ma chi forma le giovani generazioni, oggi? Non certo l’Auctoritas, che è comunque ritenuta, gnosticamente appunto, il Male. La formazione stessa è inesistente, oggi si tratta di assumere un ruolo già pronto, un fine già pensato, un mito già finito. Nemmeno la Famiglia funziona, una istituzione che può essere ormai solo un relitto sociologico, in un sistema di singoli del tutto autonomi che vivono atomicamente la loro vita; e come atomi si muovono nella società gassosa o liquida come in un casuale moto browniano.
E poi, chi sono i giovani e quanti sono, oggi? In Germania, oggi, il 30% delle donne di più di 45 anni e il 40% di quelle con laurea non hanno figli.

Il tasso di fecondità, in tutta Europa, è di 1,4 figli per donna, molto meno di quello che occorre per la semplice sostituzione demografica. In Italia, 100 nonni hanno in media 42 nipoti. Pensare che i nipoti saranno in grado di rimborsare il colossale debito pubblico e familiare quando saranno 42 rispetto ai 100 dei loro antenati è pura follia. Quanto crescerà il mercato immobiliare quando ci saranno 42 nipoti al posto degli attuali 100 alloggi occupati dai nonni?

E lo stesso vale per le professioni liberali, la produzione di beni di consumo, la cultura, la comunicazione. Noi abbiamo prodotto una cultura in cui il dubbio è la sola verità; e quindi non siamo capaci di distinguere ciò che è utile alla sopravvivenza della nostra specie, o della nostra cultura, da quello che è invece dannoso alla nostra vita.
Il sapere di Nietzsche, quello che è utile alla specie e alla comunità, la “verità” per noi e per i nostri figli, diviene quindi indistinguibile dal male, dal danno che la storia, la nostra identità, produce come utilità.
“utilità e danno per la Vita”, la Storia ci serve entrambe le Vie, ma siamo noi, come dice Nietzsche nella sua “Seconda Meditazione Inattuale”, a dover scegliere.
Storia monumentale da adorare e basta, o storia come esempio per il futuro, visto che siamo noi eguali ai nostri antenati e padri, e dobbiamo solo osare?
Altrimenti, ed è questo che sta capitando anche e soprattutto ai nostri giovani, siamo costretti a vivere come un animale, “legato al piolo dell’istante” e privo di narrazione, quindi di coscienza di sé.
Quindi, senza storia, memoria, differenza tra sé e il passato, che è il dubbio che ci fa rinascere. Quindi, il dubbio oggi è pensato come la sola verità, un tratto tipico della cultura postmoderna, ma questa è appunto la fine della specie e della sua memoria.

Se poi facciamo un calcolo semplice, stanti i dati demografici attuali, se il 10% della popolazione UE, che è la media di quella immigrata oggi presente in Europa, persegue il tasso di riproduzione attuale, tra il 2,3 e il 2,5, tra 30 e 40 anni vi sarà la sostituzione completa della civiltà europea nella stessa Europa, ovvero la fine del mondo moderno.
Quel mondo che ha costruito la verità a partire dal dubbio, quello che ha generato il Logos giovanneo dalla discussione socratica e platonica, quel mondo che ha generato la tekné, lo spirito della tecnica, a partire dalla contemplazione scientifica e astratta del mondo. E non parliamo nemmeno, qui, della fine dell’Educazione. Non solo nel senso del “buon vivere” tra esseri umani che si stabiliscono eguali in ispirito, che è il nesso tra Etica ed Etichetta, ma ci riferiamo qui proprio al senso etimologico dell’educare: il “condurre fuori”.

Oggi la “formazione” è casomai un portare dentro, un mito dell’autoaffermazione sociale ed economica che prescinde da ogni dubbio e da ogni verità. E, spesso, da ogni morale. Mancano, anzi, sono stati formalmente aboliti i Maestri, quelli che indicavano il nesso tra Scienza, Metodo e quindi dubbio sistematico, e Verità. E la Verità esiste.
Ovvero il nesso, che i Maestri insegnano, tra la persona, lo spirito, il sapere. Ogni cosa è oggi separata, sterilizzata, formalizzata, raggelata in modelli, paradigmi, sistemi, formule.
Lo Spirito, così come lo abbiamo immaginato da Platone a oggi, che è natura della verità e del dubbio insieme, non esiste quindi più.

Rimangono solo due scheletri, uniti tra di loro dalla danza macabra del linguaggio. Tutto questo dramma infatti è nato quando abbiamo cominciato, all’inizio del XX secolo, a pensare che tutti i linguaggi fossero uguali e che ogni valore di verità fosse relativo ad un solo universo linguistico che, come affermava il primo Wittgenstein, “è tutto il mondo”.
L’esatto contrario, questo, della Scienza così come si è conformata da Galileo ai giorni nostri; e della Vita così come si è definita dal dubbio socratico fino alle filosofie del Novecento.
Ogni cosa, oggi, è iscritta unicamente nel cerchio di fuoco del dubbio.
Come dice Emanuele Severino,la scienza ha rinunciato ad essere verità, ogni livello di felicità e di perfezione cui essa abbia a portare l’uomo, non può essere vissuto che come qualcosa di precario”.
Ecco, il tempo della verità del Logos, quando esso era Dio ed era presso Dio, come dice il Vangelo di Giovanni, è divenuto, oggi, il tramonto della Vita e delle future generazioni che, da sempre, la rappresentano.
Ma vediamo alcuni dati empirici: oggi la precarietà all’entrata del mondo del lavoro cresce, addirittura, all’aumentare del titolo di studio. Il dato vale per il 35,4% dei laureati al primo impiego. Nella prima fascia di età c’è il 25,6% di laureati contro il 12,4% di titolari di titolo universitario nella fascia 55-64 anni, che sono invece quelli più premiati dalla attuale piccola ripresa dell’occupazione.
Il rischio di povertà per i giovani laureati alle prime occupazioni, grazie alla attuale struttura fiscale, aumenta dal 19,7% al 25, 3% per i giovani, anche senza titolo accademico, nella fascia dai 15 ai 24 anni e dal 17, 9% al 20,2% per i giovani, ormai non più nemmeno tali, che vanno dai 25 ai 34 anni di età. Ritorniamo qui all’immagine della piramide rovesciata che abbiamo intravisto prima, in UE, dal solo punto di vista demografico. E poi, non dimentichiamo la questione della tecnologia che sostituisce in gran parte il lavoro, la robotica.

Negli anni 2000, le nuove tecniche, appena introdotte, hanno causato una crescita della produttività del lavoro ma non dei salari. Ma perché i salari non sono cresciuti insieme alla produttività, quando ciò era pure possibile?
Semplice: perché da un lato l’innovazione aumenta la produttività unitaria, ma dall’altro va a rappresentare la quota capitale che sostituisce il lavoro umano.
È addirittura dagli anni ottanta, peraltro, che si verifica la “polarizzazione del lavoro”: un aumento di domanda di lavoratori che si trovano sia alle estremità più basse che a quelle più alte dello spettro del lavoro dipendente.

Keynes, lo ricordiamo, prevedeva una grande “disoccupazione tecnologica” che avrebbe tolto progressivamente l’essere umano dal mercato del lavoro sostituendolo con macchine che non si stancano, non prendono il salario, non si ammalano e, soprattutto, non vanno in pensione. La piena sostituzione tra uomo e macchina non è però ancora avvenuta perché la sostituzione stessa porta al massimo l’efficienza dei processi produttivi e quindi ad un abbassamento dei prezzi di vendita. Ciò genera un aumento del reddito reale che produce un aumento della domanda in nuovi settori, non ancora “sostituiti”, che quindi vanno ad aprire spazi per una nuova occupazione.

Sempre più marginale e precaria.

Ma non è certo questo un processo né semplice né tantomeno capace di generare redditi da lavoro sufficienti alla riproduzione demografica, professionale, culturale, valoriale. Nel 2016, in Italia, 1.600.000 famiglie sono vissute in condizioni di povertà assoluta. Sono 4.742.000 persone. Ma l’incidenza della povertà assoluta aumenta, in proporzione, proprio tra le famiglie più giovani.
Solo gli over 65 non diminuiscono di reddito, nell’insieme delle varie classi di età. Un Paese, l’Italia, che sfrutta i giovani, relegandoli in un limbo culturale e sociale, come se fossero una “classe pericolosa”, per dirla con i vecchi storici della Rivoluzione Francese?
È una ipotesi tristemente probabile.
Certo, questa è la prima fase della storia dell’Occidente in cui non si pensa ai figli, al futuro, ma solo a consumare quello che si è raccolto senza distribuirlo a “coloro che verranno”, per dirla con una espressione di Walther Rathenau.
Colui che, ministro degli esteri della Repubblica di Weimar, venne ucciso dai nazisti. Fu proprio il suo funerale che ispirò un grande capolavoro del XX secolo, “Massa e Potere” di Elias Canetti.
Ma ormai il progetto di sostituzione dell’uomo con l’automa è già in atto. E i salari per comprare i beni prodotti dagli automi? Nessuno sa rispondere a questa domanda.
E cosa dovrebbe essere il lavoro produttivo quando sarà compiuto da beni strumentali che si ammortizzano facilmente? Altra domanda senza risposta, che invano proponiamo ad una economia banalizzata da una finanza immaginaria, come si può leggere in quasi tutti i manuali di teoria economica in uso nelle università.
Ci vorrebbe un nuovo Adam Smith, ma non a caso il teorico scozzese era un filosofo morale e uno storico, non un “economista” come quelli che vanno oggi di moda.
Negli Usa, l’anno scorso, 2,5 miliardi di Usd in salari sono stati sostituiti dalla robotica.
Il 60% degli attuali ruoli aziendali ha almeno un 30% di attività che possono essere facilmente automatizzate, anche in ruoli paramanageriali.
I settori con più esuberi saranno quelli della produzione industriale, della sanità, dei media e dell’intrattenimento, i servizi finanziari, la pubblica amministrazione. Il livello di retribuzione sarà strettamente legato alla formazione specifica di ogni singolo lavoratore, dovremo dimenticarci il sindacato, Pellizza da Volpedo, il “Quarto Stato”. Niente masse, nel futuro, Ma allora, come faremo a comparare i prezzi e i salari?
Questo vuol dire che non esisterà più la classe media, che sarà frazionata in una infinità di piccoli gruppi.

A questo, se non faremo fronte in tempo, corrisponderà la jobless growth, la crescita economica senza redditi da lavoro, che polarizzerebbe la società tra coloro che non possono adattarsi in tempo alla nuova produzione e i pochissimi che comunque occorrono per mandare avanti il sistema economico, con prevedibili rivolte, scontri, destabilizzazioni statuali e sociali.
Ecco cosa ci si presenterà, se non curiamo il futuro di “coloro che verranno”, die kommenden, che non avranno nemmeno la cultura politica e la sapienza di organizzarsi come invece seppero fare i loro antenati, quando arrivò, partendo dal lavoro artigiano, il “sistema della fabbrica” manchesteriano, come lo chiamava Marx.
E in Italia, lo ricordiamo, la quota dei giovani, tra i 15 e i 29 anni, che non ha un lavoro e non è in fase di formazione è del 26,2%, mentre nel resto della UE vale appena il 16,5%.
Come riusciremo a dare un sostegno temporaneo, di ovvia origine pubblica, se la produttività aumenta solo con l’automazione e se il processo di dislocazione delle imprese verso i Paesi Terzi procede all’attuale ritmo?
Dove si prenderanno le tasse per mantenere e formare i giovani? Le chiederemo ai robot? Nei prossimi venti anni, poi, si calcola che gli Usa perderanno il 47% degli attuali posti di lavoro.In Italia, alcuni economisti esperti della cosiddetta “Rivoluzione tecnologica 4.0” calcolano una perdita di posti di lavoro strutturali del 52%. E i giovani diminuiscono in percentuale sul resto della popolazione.
A Ferrara, la provincia con il più basso tasso di sostituzione demografica in Italia, l’ultimo anno in cui la popolazione è cresciuta è il lontanissimo 1951. E non parliamo nemmeno della formazione, della cultura e della elasticità psicologica della popolazione italiana.
Gli analfabeti “funzionali”, in Italia, sono l’80% della popolazione.
Gente che legge, guarda, ascolta ma non capisce, letteralmente, il contenuto del messaggio. Il 5% della nostra popolazione è poi ancora analfabeta strutturale. Non legge lettere né cifre.
Solo il 20% tra i cittadini italiani ha infine una competenza verbale e di lettura completa, ovvero comprende il testo che gli viene sottoposto; che ovviamente non deve trattare né di metafisica né di metempsicosi.
Solo il 7%, ancora, tra il 20% di cui abbiamo fatto cenno sopra, legge libri o quotidiani, non importa se siano su supporto cartaceo o elettronico.
E il 75% di quel 7% che legge qualcosa legge solo libri o comunque periodici di puro intrattenimento.
Potremo affrontare il futuro in queste condizioni, mentre roviniamo scientemente quel poco che esce ancora dalle università?

E, ce lo dice sempre l’ISTAT, un italiano su cinque non ha mai aperto un libro o un giornale, non è mai nemmeno andato al cinema o a ballare, al teatro, a un concerto, neppure allo stadio.
Quando la quota, minima, di giovani che riescono ad entrare con qualche stabilità nel mondo del lavoro si rende autonoma dai genitori, siamo arrivati, e ce lo dice ancora l’istituto nazionale di statistica, a 40 anni e oltre. È questo un ovvio derivato del disastro culturale, organizzativo, morale delle famiglie e delle scuole, che producono pezzi di carta e non risultati sostanziali.
La scuola italiana e l’università si sono adattate, oggi, al todos caballeros che Carlo V concesse agli abitanti di Alghero, nel 1541.

Finita, spesso, la fase riproduttiva, a 40 anni e oltre, impossibile programmare una vita di coppia, impossibile poi, ovviamente, mantenere un figlio o magari due (la soglia di sostituzione) con lo stipendio risicato e insicuro che si riesce a conquistare. E, se l’automazione va avanti con i ritmi attuali, la quota di disoccupati tecnologici dovrebbe aumentare, rebus sic stantibus, del 19% all’anno. E nel 2030 i giovani non più tali dovranno aspettare, per uno stipendio decente, i 50 anni.
Ben oltre la fase riproduttiva naturale.
Se un giovane di venti anni ha allora impiegato, nel 2004, dieci anni per raggiungere l’autonomia economica (che non è certo la ricchezza e nemmeno la possibilità di metter su famiglia) nel 2030 dovrà invece metterci, per raggiungere l’autonomia riguardante il solo mantenimento personale, ben 28 anni.
Mi chiedo, da economista, cosa ne sia stato della produttività media di quel posto di lavoro.

L’indice di equità tra le generazioni è, in Italia, fermo a 130, mentre nel resto della UE vale 100.

Appena sopra l’equivalenza tra entrate e uscite dal mondo del lavoro a parità di salario. Siamo diventati una economia di vampiri, ci permettiamo di dirlo, in cui i “vecchi”, pur senza alcuna colpa soggettiva, succhiano il sangue dei giovani.
Intanto, l’incidenza dei costi indotti dal mantenimento e dal mancato guadagno generato dai giovani che “non studiano e non lavorano”, è di 32,65 miliardi di Euro, nel solo 2016.
Costi insostenibili, questi, per mantenere le inefficienze strutturali della scuola e del mondo del lavoro, costi egualmente insostenibili per coprire il mancato collegamento tra università e mondo del lavoro, costi di mantenimento, ancora ulteriormente insostenibili, per l’aggiornamento postuniversitario dei laureati, che andranno a prendere salari non corrispondenti nemmeno al ripiano dei costi della loro formazione, costi irragionevoli infine per l’aggiornamento produttivo italiano, che vanno a sostenere proprio quelli che non saranno mai adatti ai “nuovi lavori”.
Si spende, oggi, per mantenere l’arretratezza di quello che dovremmo utilizzare per aggiornare i sistemi produttivi e sostenere la formazione.
Una equazione folle.
E tutta sulle spalle dei nostri giovani.
Finisce oggi, quindi, la struttura sociale che ha caratterizzato lo sviluppo, la natura, la cultura politica e i meriti specifici del nostro Paese: la piccola borghesia non esiste più, polarizzata tra il nuovo proletariato e i ceti a alto reddito, la classe operaia, nemmeno quella, esiste davvero più, sostituita da una massa “flessibile” di forza-lavoro senza qualifiche né protezione, la borghesia è anch’essa sparita, con una nuova classe dirigente che è composta da soli 1,8 milioni di famiglie e che ha un reddito più alto della media del 70%.

Che l’evoluzione economica ci faccia arrivare presto, quindi, a un “nuovo medioevo”, con classi sociali bloccate e nessuna speranza di migliorare la propria condizione? Mentre le nuove braccia, inutili, che vengono da fuori UE elimineranno del tutto la nostra cultura, sostituendola con la loro, fusione di americanismo provinciale e tribalismo arcaico? E ancora, i giovani, senza dubbi data la scarsa qualità della loro formazione, ma anche senza verità, data l’instabilità della loro condizione, sono oggi in Italia, per 627.000 unità sotto i 25 anni alla ricerca di una prima occupazione, che non li libererà certo dal dover richiedere la “paghetta” ai genitori.

Quattro milioni in tutto sono inattivi, i disoccupati nella fascia 25-34 anni sono peraltro cresciuti, nell’ultimo anno, addirittura dell’ 11%.
Le ragioni? Ovvie, se ci pensiamo bene.
Gli sgravi uguali per tutti, che hanno favorito i lavoratori più anziani ed esperti, e il calo della decontribuzione, che non è più così attrattiva per le imprese.
E poi, aggiungiamo noi, vi è un problema culturale. Noi aspettiamo troppo a iniziare la formazione dei giovani, sia culturale che professionale. Una scuola diluita, tutta tesa al mito del “nessuno lasciato indietro”, che penalizza ferocemente il merito, la vocazione, la passione, la personalità. Un miserabile relitto del ’68 dove lavorano ancora gli scarti di quella maledetta epoca.
Una scuola media che non serve poi a niente, scuole medie superiori che proiettano lo spettro di insegnanti frustrati sulle giovani fronti di ragazzi e ragazze che vorrebbero mordere subito la vita, imparando una lingua bene, il violino, il calcolo integrale, la pittura del Rinascimento, la scultura in legno.

I giovani cinesi, coreani, russi, tedeschi, all’età in cui i nostri ragazzi vanno pigramente a studiare in facoltà vecchie come il cucco, e non aggiungo qui quanto di queste istituzioni abbia valore di mercato sul piano internazionale, hanno già girato il mondo per studiare, il pianoforte a Santa Cecilia, la matematica alla Scuola Normale Superiore, il management alla Wharton School.
Se c’è un limite culturale, nella nostra società, è la mancanza di dubbi, l’idea che il mondo non cambi, che non si debba mai sfidare sé stessi, i propri sogni, i propri limiti.
La società dei vecchi fa pensare come vecchi anche i giovani, che aspettano di fare mestieri che, lo abbiamo visto, quando saranno adatti a produrre non ci saranno nemmeno più.
Un Paese, il nostro, destinato allora a finire, miseramente, senza giovani capaci di prendere in mano il loro destino insieme a quello dell’Italia, senza vecchi capaci di insegnare davvero la Tradizione, nel senso etimologico del termine, senza futuro, senza soldi, senza classe dirigente.
Ormai del tutto o cessata per morte cerebrale o perché venduta allo straniero.
No, non potremo dire, come il Prometeo di Goethe, “Qui io resto, formo uomini/secondo la mia immagine/una stirpe a me simile/per soffrire, per piangere/per godere e gioire/ e non curarsi di te/come me”.

L’uomo conquista da sé la propria civiltà, titanicamente, costringe gli dèi ad allearsi con lui, dato che è nella sua saggezza conoscere l’esistenza e i suoi limiti, diversamente proprio dagli dèi.
Ma è questa una trama sottile, che si perde in poco tempo, quando non si riconquista, ogni giorno, con l’eroismo quotidiano, l’altezza che si era raggiunta il giorno prima, e la si supera.
Dubbio del limite, verità dell’eroismo.

Se allora un Paese non ha più questa fibra dentro di sé, non può sopravvivere, né nell’economia come dentro la sua anima più profonda.

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