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Votare non è mettere un like, le elezioni hanno conseguenze

Christian Rocca, direttore di IL, il mensile de Il Sole 24 Ore, nel prologo al numero in edicola spiega perché le elezioni politiche hanno conseguenze, partendo da due casi: il presidente degli Usa Donald Trump e la sindaca di Roma Virgilia Raggi.

* Christian Rocca, direttore di IL, il mensile de Il Sole 24 Ore, nel prologo al numero in edicola spiega perché le elezioni politiche hanno conseguenze, partendo da due casi: il presidente degli Usa Donald Trump e la sindaca di Roma Virgilia Raggi.

Non era difficile prevedere la grottesca incapacità di Donald Trump di governare se stesso, prima ancora che l’America e il mondo. Non c’era bisogno di aspettare i primi sei mesi fallimentari della sua compagnia di avanspettacolo per emettere un giudizio negativo sul Cialtrone in Chief. Era chiaro che questo «artista della truffa», secondo la definizione puntuale di Mike Bloomberg, sarebbe diventato un presidente tutto tweet e distintivo, un caso clinico da manuale dei disturbi mentali, oltre che un enorme imbarazzo per il Paese che per un secolo ha diffuso libertà, democrazia e innovazione nel pianeta. Trump è la caricatura dell’America di cui hanno sempre parlato a vanvera gli antiamericani di professione. Trump è il loro sogno realizzato. Trump è il primo presidente antiamericano della storia degli Stati Uniti.

Era altrettanto facile immaginare quanto il tragicomico mondo di Trumplandia avrebbe reso inverosimili, ma per difetto di fantasia, le già immaginifiche serie televisive americane. Il Wall Street Journal a fine luglio ha raccontato un episodio esilarante. Un paio di giorni dopo l’insediamento dell’Amministrazione Trump, l’allora portavoce Sean Spicer ha mandato uno dei suoi collaboratori in giro per la Casa Bianca a cercare un frigobar da sistemare nel suo ufficio in modo da tenere in freddo cibo e bibite. Ne è stato trovato uno nella stanza degli stagisti, ma gli stagisti non hanno voluto cederlo. Sicché Spicer, il portavoce dell’uomo che guida il Paese più importante del mondo, ha aspettato che si facesse sera e quando gli stagisti se ne sono andati a casa si è furtivamente intrufolato nel loro ufficio per staccare personalmente il frigobar dalla parete, portarselo in braccio lungo i corridoi della West Wing e infine piazzarselo nella sua stanza. Una scena assurda come questa non è venuta in mente nemmeno agli autori di Veep, la spassosa satira sulla vicepresidente disfunzionale Selina Meyer. E quando, dopo aver licenziato Spicer, Trump si è liberato anche del chief of staff, Reince Priebus, i giornali hanno svelato le sconcertanti umiliazioni trumpiane nei confronti del suo capo di gabinetto: quella volta che, nello Studio Ovale, ha chiesto a Priebus di scacciare una mosca che lo infastidiva e quell’altra, in volo sull’Air Force One nei cieli del Wisconsin, in cui lo ha sbeffeggiato perché si era entusiasmato nel riconoscere dall’alto la sua piccola casetta. Veep purissimo, se solo quelli di Veep avessero avuto idee così originali.

E poi ci sono i fenomenali personaggi dello staff, in aggiunta a familiari di sangue e acquisiti come nel Padrino: Anthony Scaramucci, detto The Mooch, che sembra una parodia dei Soprano, assoldato soltanto per undici giorni col compito di far fuori Spicer e Priebus, e poi eliminato a sua volta dall’irlandese di Boston John Kelly, il nuovo chief of staff al posto di Priebus, come in un film di Martin Scorsese, The Departed contro Quei Bravi Ragazzi; Kellyanne Conway che con naturalezza definisce le panzane del boss «fatti alternativi»; e Omarosa Manigault, consigliere strategica del presidente in quanto ex partecipante al reality show The Apprentice, praticamente la Rocco Casalino americana.

E a proposito delle stravaganze di casa nostra: era ancora più banale aspettarsi il disastro grottesco di Virginia Raggi a Roma e della banda di sciamannati a cinque stelle, e forse non abbiamo ancora visto niente. Così come era ovvio che sarebbero tornati i vecchi riti politicanti, la generale impossibilità di prendere decisioni e la condivisa debolezza dei governi dopo il “No” al referendum costituzionale del 4 dicembre. Votare non è come mettere un “mi piace” su Facebook, un cuoricino su Twitter o un like su Instagram. Le elezioni sono una cosa seria, la democrazia sui social no. Quando si esprime un voto non puoi modificarlo o cancellarlo o sostituirlo con un post o uno status di spiegazioni e di scuse, come capita quando si scrive una scemenza su internet. Alle elezioni non c’è modo di svuotare la cache. Il voto resta. Sembra una banalità, e in fondo lo è, ma è anche una di quelle verità ovvie, che gli americani chiamano truismi, che andrebbero scolpite nel marmo all’ingresso dei seggi elettorali: «Le elezioni hanno conseguenze».

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