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Il punto di valori

La guerra psicologica dell’Isis

L’attentato a Manchester del 23 maggio scorso è un punto di svolta per la guerra del Daesh-Isis in Europa e, in futuro, nel resto del Mediterraneo.

L’attentato a Manchester del 23 maggio scorso è un punto di svolta per la guerra del Daesh-Isis in Europa e, in futuro, nel resto del Mediterraneo.

Due dati, in prima istanza, devono essere posti alla nostra attenzione: in primo luogo, quello della Manchester Arena è il primo atto terroristico in Europa messo in atto da un jihadista di origine libica, anche se nato in Gran Bretagna nel 1994 da genitori, è bene notarlo, avversi al regime gheddafiano.

La generazione dei millennials, alla quale in parte appartiene il terrorista di Manchester, è quella nella quale si sono finora trovati più ragazzi (e ragazze) disposte al “martirio” fi sabil Allah, sul sentiero di Allah. Ovvio anche questo dato, se ci pensiamo bene. I giovani nati dopo la fine della guerra fredda sono tabulae rasae, sono stati costruiti, nelle scuole, nelle famiglie e soprattutto nei media, e a maggior ragione nella rete, per essere manipolabili con la massima rapidità nel rapido cambiare delle mode, dei simboli, dei lavori.

Nessuna identità, per aderire alla gig economy, l’ “economia dei lavoretti” teorizzata da molti guru e sedicenti economisti americani e europei, nessuna memoria, per essere adattabili ai nuovi consumi e alle nuove mode senza troppi sforzi pubblicitari, nessuna storia, per essere in futuro trasferibili e intercambiabili nei nuovi grandi spazi della geoeconomia che sarà creata della povertà di massa.

Primo indizio da studiare: il mito jihadista del Daesh-Isis è il succedaneo e insieme l’opposto di questa rivoluzione passiva postmoderna, nel senso gramsciano del termine, con cui le classi dirigenti globali dell’occidente accettano e addirittura stimolano i peggiori comportamenti delle masse, per poi utilizzarli a loro favore. Se anni fa si teorizzava la società “dei due terzi”, con i due terzi “ricchi” cha abbandonano il terzo dei poveri al suo destino.

Oggi siamo alla società dei tre terzi: una prima fascia, piccolissima, che si arricchisce, un terzo di classe media che si divide tra nuovi poveri e membri dell’establishment, una immane massa di poveri, vecchi e nuovi, abbandonati al loro destino.

La politica oggi protegge i ricchi, gli regala le spoglie della classe media alla sua fine, manda al diavolo i poveri creando per loro una Disneyland mitica e mediatica che li distragga dal loro destino. Contro lo sradicamento occidentale, allora, il mito del califfato, contro la distruzione dell’identità, l’ossessione di una identità finta, contro il “pensiero debole” occidentale il dottrinarismo mnemonico e sciocco, ma fin troppo forte, del jihad.

Infine, contro l’infinito presente del consumo euroamericano, il mito jihadista della “fine dei tempi” vicina, del mahdismo sunnita che, non a caso, fu il primo obiettivo politico e militare da distruggere da parte del califfato, quello vero, degli Ottomani. Se c’è allora nel nostro “estremo occidente” una stabile crisi economica, si risparmia sul processo e sul prodotto, quindi si diminuisce il costo del lavoro, si diminuisce il numero dei lavoratori, li si paga pochissimo, li si delocalizza e, quindi, si costruisce un grande divertimentificio fino alla vecchiaia.

Il mito del califfato sirio-iraqeno, se vogliamo riprendere un modello marxista di analisi, spesso non inutile, è anche il grande mito identitario e perfino professionale di tanti giovani islamici sradicati e emarginati nelle periferie delle nostre città.

Come i proletari e i poco di buono andarono volontari a Fiume con il Comandante D’Annunzio, così i proletari e i piccoli criminali si autoassolvono delle loro colpe e ricreano una identità mitica, guerriera, nobilitante e con uno stipendio.

Divertimentificio d’occidente, per i poveri, in cui si sopravvive solo se si accetta di rimanere insieme poveri e privi di identità, quella identità che viene fornita, come succedaneo, proprio dal jihad del nuovo califfato sirio-iraqeno.

Viene in mente il terribile e illuminato Nietzsche dei Frammenti Postumi, quando immaginava i nostri tempi come una immane massa di “cinesini” sui quali cade l’”olio lenitivo” che li spinge ad andare avanti, il soma, la droga accettabile del 1984 di Orwell.

Non più la Religione, “oppio dei popoli”, ma il mito del desiderio desiderante, della materia istintiva, dell’appagamento immediato e irrazionale.

Non a caso, in tutta la propaganda dedicata ai giovani del Daesh e di Al Qaeda, nelle riviste come in tutto il materiale on line, il punto focale è la fine dei tempi e l’urgenza della conversione all’islam, prima che sia troppo tardi, conversione da compiere anche e soprattutto con il jihad della spada.

Il secondo dato da studiare, più strategico, è che, vista la scarsa presenza dei jihadisti califfali a Raqqa e a Mosul durante e dopo l’evacuazione successiva alla vittoria delle forze siriane di Assad e dei suoi alleati russi e iraniani, si può solo dedurre allora che molti dei militanti del Daesh sono scappati prima della caduta del califfato in quelle zone e si sono ritirati dietro le linee, per distribuirsi rapidamente in Europa e nelle altre aree del nostro “estremo occidente”.
Protetti magari dalle tribù come la Zu-bi e la Al masalmeh, che parteciparono compatte alle rivolte iniziali contro Bashar el Assad.
Quello che poi noi chiamiamo genericamente “terrorismo” è soprattutto uno strumento di guerra psicologica, dato che è il terrore, il più efferato, a atterrire e quindi a bloccare indefinitamente le reazioni del nemico, di noi.

Era la tattica di Gengis Khan, ora è il primo strumento della presenza del jihad in un territorio “nemico”, il nostro.
Dopo il terrore, viene la sequenza delle altre azioni di guerra, tutte connesse al primato di una ben nota tecnica di guerra psicologica islamica: l’inganno sistematico nei confronti del nemico, di noi.

La Taqyya, l’inganno lecito, una sorta di “dissimulazione onesta”, per usare il titolo del testo di Torquato Accetto del 1641, che Croce riportò alla fama, ha solidi fondamenti coranici.
Il criterio di base per comprendere la questione è quello che si trova nel commento di Al Tabari al versetto 3: 28, il quale recita “i credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che non temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei Suoi Stessi confronti. Il divenire è verso Allah”.

Il commento di Al Tabari a questo versetto coranico è illuminante e attualissimo: “i credenti non devono prendere come amici i non credenti. Chi invece lo farà non avrà più alcuna relazione con Allah, a meno che non prendiate precauzioni contro di loro, ubbidendo a loro se sono al potere ma mantenendo sempre una intima animosità contro gli infedeli”.

Quindi, teoria dell’inganno, poi, come prima fase dello scontro jihadico, il terrore che blocca la reazione dell’infedele per il tempo desiderato, e più terrificante è meglio è.
Poi, in sequenza, le altre tecniche della guerra psicologica e materiale, che nell’universo islamico sono sempre parallele.

La dottrina coranica della guerra, poi, è legata a due caratteristiche psicologiche e politiche: il riconoscimento della eventuale “repressione” messa in atto dagli infedeli sulla comunità islamica intesa come un tutto, proprio come accadde all’inizio della predicazione di Muhammad da parte dei nemici Quraysh meccani; e il diritto assoluto dell’islam alla sua espansione universale, pacifica o meno dipende solo dagli “infedeli”.

Una teoria della guerra insieme vittimista e superba.

La Fratellanza Musulmana ripete infatti sempre, in questi anni, che “l’Europa sarà conquistata pacificamente”, e che quindi non occorre il jihad della spada. Taqyya? Anche, ma più che altro cretinismo occidentale e mito del cosiddetto “multiculturalismo”.

Vi sono, è bene qui ricordarlo, ben 40 testi islamici maggiori sulla guerra e le sue tecniche, scritti solo nel lasso di tempo tra l’ottavo e il quindicesimo secolo d.C.
Senza una filosofia della guerra non si capisce l’Islam, anche quello cosiddetto “moderato”.

Le tecniche del jihad sono, comunque, il Qital, “combattimento” o anche “uccisione”, testimoniato nel Corano fin dalle sue prime sure meccane, il Ghazw, la battaglia diretta per l’espansione del territorio soggetto all’Islam, la Siriya, la battaglia commissionata dal Profeta o da un suo successore ma non direttamente condotta da Muhammad o da islamici, la Baatha, la spedizione che può essere diplomatica ma che non esclude lo scontro armato.

Prima il terrore, poi il dipanarsi di queste tecniche, ovviamente modernizzate.

Nei testi coranici della tradizione wahabita, peraltro, vi è un capitolo finale sul jihad, cosa che non accade in altre tradizioni interpretative. E nel mondo wahabita, che è all’origine del jihad contemporaneo, si tralasciano inoltre i versetti che proibiscono il suicidio (195 di Al Baraqah, Al Nisa’29-30) oltre a tradurre come una obbligazione vitale e generica il “dare” (anche la vita) fi sabil Allah, “sul sentiero di Allah” un “dare” che prima era specificamente riferito alla tassa da riscuotere da parte degli “infedeli”.

Quindi, per riassumere, ora la rete del califfato si estenderà presto all’Europa e ricomincerà a generare terrore, per poi usare le tecniche normali di guerra, ma sempre nella categorizzazione che abbiamo visto sopra.

Né bisogna dimenticare che le prime grandi battaglie del Profeta Muhammad sono tutte contro le tribù ebraiche medinesi; e questo è un dato essenziale.

Lo scontro finale sarà tra Ebraismo e Islam, quello per la Fine dei Tempi, e il Cristianesimo è “infedele” perché deriva dall’Ebraismo e accetta il Mediatore e Risorto, Gesù Cristo, non come Profeta (il che varrebbe anche per il Corano) ma come Filius Dei e Deus.
Se vi è una reazione di Israele contro un solo musulmano, come peraltro fu il caso di Osama Bin Laden, si deduce, sulla base delle teologia che Ibn Taymiya elaborò contro l’Islam tartaro, che si possa dichiarare il jihad. Altri teologi della guerra islamica deducono anch’essi che ciò possa giustificare da solo, l’esistenza ovvero dello Stato di Israele, il jihad, e tutte le guerre tra ebrei e palestinesi, Paesi arabi, laici o meno, islam jihadista contro lo stato ebraico sono state, appunto, un jihad, che non ha termine se non con la vittoria dei credenti e con l’arrivo, altro elemento escatologico e militare insieme, dei “tempi ultimi”.

L’Islam percepisce chiaramente che l’occidente attuale non vuole e non possiede più l’eschatòn. Vuole e possiede il ciclo sempre uguale delle nascite e delle morti, l’Eterno Ritorno dell’Eguale nietzscheano. Ridotto però a ciclo dei consumi, sempre più ristretti, peraltro.

L’immagine carnascialesca, materialista e satanica del Ciclo che Niezsche ebbe in visione a Sils Maria. Ma che cos’è l’eschatòn?
È la forma neutra greca della parola “fine”. Fine dei Tempi. Il tema è, inizialmente, per noi “infedeli”, quello della Epistola di San Paolo ai Romani. Il katechòn, invece, di cui tratta sempre San Paolo, è propriamente l’Anticristo.

Trattiene il Male, perché è trattenuto dal Santo che è presente parzialmente nel mondo, non lo fa vedere, tiene fermo il tempo. Lo maschera, lo addomestica e lo stabilizza. E non può operare il male in tutta la sua potenza.

È nel rapporto con il Male, nel suo temporaneo “tenere fermo”, ce lo ricorda Carl Schmitt, che l’Occidente fonda il Politico, con il “contratto sociale” e il precedente bellum omnium contra omnes di Hobbes, il cui sovrano diviene l’unico che può compiere il male per difendere la vita, la proprietà, la relativa libertà dei suoi sudditi.

È l’inizio della dialettica. Macbeth, il protagonista della tragedia di Shakespeare, giunge al potere, e lo perde, grazie allo stesso e unico maleficio delle tre streghe, che gli predicono che perderà tutto quando arriverà la “foresta che cammina”, un apparente paradosso.

Katèkhon non fa arrivare l’eschaton.

La I lettera ai Corinti di San Paolo afferma che dopo la Fine “tutti saremo trasformati” (15, 51). Il modello è quello della resurrezione narrata da Ezechiele, le ossa che si rivestono. Ma, in San Paolo, la fede nel Regno, che è ancora un modello accettabile per un islamico, ovvero un califfato perfetto futuro nell’universale Islam, diviene unicamente la fede nel Risorto, che addirittura sostituisce il Regno.

E, addirittura, la Fede nel Risorto può differire indefinitamente il Suo ritorno, può “contenere” da sola il male e vincere il katechòn senza che arrivi la Pienezza dei Tempi.
Come si vede, è nelle sottigliezze della analisi teologica, cattolica e islamica, che si legge correttamente la dimensione politico-religiosa del jihad e il suo possibile contrasto culturale, strategico, addirittura militare da parte nostra.

Se poi il Risorto non vuole riapparire, invece di costruire il suo Regno, come crede di fare l’Islam jihadista contro i “peccatori-infedeli” (peccatori in quanto infedeli) l’eschaton di San Paolo diviene interiore, il ritorno di Cristo, la Fine dei Tempi sono secondari, perché noi siamo tutti in Cristo, che è già Risorto, già da ora.

È il pleroma, il Cristo che riempie da sempre di Sé il mondo e lo porta alla Salvezza dentro la Chiesa, ma anche dentro tutta l’umanità.
Se fate mente locale al continuo meccanismo inimicus-hostis, nemico personale-nemico pubblico che informa, lo abbiamo visto, la prassi e la dottrina del jihad, non possiamo non osservare la radicalità della separazione tra l’Occidente fondato dalla teologia giudeo-cristiana e l’Islam.

La quale teologia cattolica è una specifica teoria dei Tempi Ultimi, ma della parusia, della Pienezza dello Spirito, che si confronta con la teologia dell’Ultimo Tempo islamica, che è una dottrina della guerra alla quale, dopo, risponde Allah distruggendo tutta questa fase del mondo visibile.
È centrale qui meditare sul versetto coranico che afferma come “Allah sia il Signore dei Mondi e può distruggere il mondo e rifarlo quando vuole”. (Al Fathir, 16). Ovvero, il nostro universo, senza alcuna mediazione, sarà distrutto e, successivamente, Allah ne creerà, se vuole, un altro, che non possiamo nemmeno immaginare, ci richiamerà in vita e separerà le anime tra l’inferno e il paradiso.

Non vi è possibilità nell’Islam di fermare il katechon, tutto avviene dentro Allah, e nemmeno l’eliminazione di tutti gli “infedeli” è un prodromo per la Fine dei Tempi, ma solo una sua precondizione.

Ecco quindi il nichilismo, per usare le nostre categorie storico-politiche, dei jihadisti attuali: sanno che loro devono solo distruggere il mondo degli infedeli, e poi sarà solo Allah, senza alcun segnale, a ricrearne uno nuovo.

Un nichilismo che ricorda molto, a parte il suo fondamento teologico, quello russo della metà del XIX secolo; ma anche quello dei millennials, che sfidano il loro corpo, salgono sui grattacieli, tentano il suicidio, sono immotivatamente violenti. Certo, qui opera il Nemico, che nella teologia islamica Allah crea dal “fuoco senza fumo” e viene espulso dalla Grazia di Dio quando si rifiuta di rendere omaggio all’Uomo, creato da Allah dall’argilla e non dal fuoco, senza uso del fuoco.
Il diavolo morirà alla Fine dei Tempi, dopo aver ingannato, è il suo mestiere, l’umanità intera.
Ma è appunto l’umanità il solo nemico di Iblis, del maligno, Allah non può ovviamente essere un suo nemico.

È da sempre sopra il nemico; e qui si trova l’ambiguità dell’Islam riguardo al Male, una teologia irrisolta secondo la quale quello che per noi è il Male potrebbe ad Allah apparire in modo affatto diverso. Residui questi, forse, di gnosticismo nella teologia islamica, mentre nella teologia cattolica Gesù Cristo, il Risorto, è già il Signore della Storia ed ha già vinto il maligno. Che è nemico dell’Uomo ma anche dei progetti di Dio. Ma è proprio il rituale della violenza, che talvolta imita i rituali satanisti di morte così diffusi tra i giovani occidentali, che crea lo specifico rituale di morte terroristico, che è quello che dà forma proprio all’identità profonda dei jihadisti dell’Isis.

Partecipare alla realizzazione del Male, che distruggerà questo mondo infedele, è per i militanti del Daesh-Isis un modo, gnostico, per “chiamare Dio” dopo la fine di questo mondo.
Siamo sempre al gioco del rovescio e dell’opposto di cui parlavamo all’inizio.

Gnosticismo politeista in Occidente, gnosticismo dell’Uno da chiamare nella Storia per il jihad islamico.

E qui occorre notare come l’uso della Rete da parte del Daesh-Isis sia propagandistico, naturalmente, ma anche identitario e, spesso, sovrapponibile ai meccanismi pubblicitari o politici (ammesso che oggi vi sia differenza) con i quali viene usata la Rete in Occidente.
Non voglio ripetere con questo discorso la consueta banalità di coloro che dicono che i video dell’Isis “sono fatti benissimo” o che la comunicazione di Dabiq o di Rumiyah, le due riviste del califfato, sembra messa a punto da ottimi professionisti che conoscono le leggi occidentali dei media.

No, voglio invece affermare che il mix politico occidentale, ovvero “idea-piattaforma-specialisti” che ha portato al potere Obama, Trump, la Brexit, Macron, e continuerà ancora a far danni in futuro, è oggi lo stesso paradigma del Daesh-Isis.

Barack Obama ha utilizzato la piattaforma VoteBuilder che gli ha permesso di raccogliere 72 milioni di Usd in piccolissime donazioni, ma soprattutto gli ha concesso di tracciare gusti, tendenze, preferenze e idiosincrasie di una massa colossale di suoi potenziali elettori.
Donald Trump ha invece utilizzato la sua piattaforma ProjectAlamo, che individua possibili elettori tramite il software LookalikeAudiencies il quale misura, con il sistema BrandLift, anche l’efficacia della pubblicità.

Brexit l’hanno programmata, sul piano comunicativo e politico (è oggi la stessa cosa) quelli di Cambridge Analytics. Daesh-Isis usa invece le sue reti nei social media o in quelli tradizionali soprattutto per sollecitare una risposta dai suoi utenti.

È molto probabile poi che il califfato, soprattutto oggi che si sta trasferendo in Europa e, forse, negli Usa, utilizzi piattaforme molto simili a quelle elettorali dell’occidente, per tracciare notizie, dati, aree di possibile protezione-fiancheggiamento e di nuova militanza, oltre a informazioni sul nemico “infedele”.
Spesso le comunicazioni del califfato si inseriscono, per audiencies preselezionate, nei siti di notizie arabi più diffusi, come Al Ahram, e nei forum dei social media appaiono sempre più spesso indicatori per raccogliere i messaggi secondo le varie voci: shar’ia, militanza, notizie dal califfato, Corano interpretato, etc.

È certamente possibile oscurare e creare reti che traccino queste masse di big data jihadisti in simultanea, ma è bene ricordarsi anche dei postulati culturali, teologici, politici di cui abbiamo parlato in precedenza.

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