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Il pane, la terra, l’acqua: Ezio Tribbia presenta “Campo di pane”

La galleria Viamoronisedici ospita fino al prossimo 20 maggio "Campo di pane", un allestimento fatto di poche semplici presenze di stoffa, di carta, d'argilla, nel segno dell'umiltà del lavoro e della potenza simbolica degli elementi-base per la vita dell'uomo: il pane, la terra, l'acqua

Il pane è, ancora una volta, il centro delle riflessione di Ezio Tribbia, un panificatore diventato artista per vocazione ed esigenza di autenticità nell’espressione dei propri valori. Presentatosi al pubblico bergamasco nel 2009 con la mostra “Sudari” allestita in Santa Maria Maggiore, dove una serie di teleri con l ‘impronta del pane alludevano asceticamente al ciclo della vita, Tribbia è intervenuto da allora in vari contesti d’arte contemporanea ovunque portando la propria creatività evocativa e pauperista.

La galleria Viamoronisedici ospita fino al prossimo 20 maggio “Campo di pane”, un allestimento fatto di poche semplici presenze di stoffa, di carta, d’argilla, nel segno dell’umiltà del lavoro e della potenza simbolica degli elementi-base per la vita dell’uomo: il pane, la terra, l’acqua.

Sul pavimento, un lungo telo su cui, ragazzetto, Tribbia preparava il pane con il padre, erede di generazioni di panettieri; alle pareti carte da forno convertite in talismani, traforate da un filo rosso
che fissa le esperienze sedimentate nell’infanzia come piccoli rattoppi di memoria.

All’ingresso, mini-pareti in mattoni refrattari creano simboliche scaffalature “come librerie di Babele che contengono la grande ricchezza della tradizione” tiene a sottolineare Sem Galimberti, curatore della mostra. I forati acquistano tonalità diverse a seconda dell’esposione al sole e all’umido, spiega Tribbia, che ama intervenire il meno possibile sul processo naturale di metamorfosi degli elementi in modo che quasi l’opera d’arte “si faccia da sé”.

È un’arte che “coniuga in modo indissolubile l’etica e l’estetica” all’insegna di un “informale leggero e poetico”, afferma Galimberti che da anni osserva il percorso dell’artista bergamasco e così sintetizza l’attuale concept espositivo: “la presente rassegna segue un cammino che parte dalle assi di lievito, tavole solcate da evanescenti tracce di odori e sapori, di bruciature come ferite, di telo delle muffe, di leggeri strati di farina come idropittura di squisita gracilità” e arriva al muro di laterizi “che hanno costole solcate da tracce di pani rotondi che il sole ha calcinato in un’operazione paziente di lunga durata”.

È proprio il tempo il fulcro della riflessione di Ezio Tribbia, il tempo lungo del lavoro manuale, del processo naturale, della fatica e dell’attesa: nelle sue opere il pane da sostentamento materiale si tramuta in metafora di quotidiano nutrimento spirituale. Non solo e non tanto in quanto icona per eccellenza della tradizione cristiana e eucaristica, dalla quale in ogni caso nell’immaginario collettivo non si prescinde, ma in quanto traccia di un vissuto concreto, di un rapporto tangibile con gli ingredienti che sostanziano quasi antropologicamente l’esistenza dell’uomo come parte di un consorzio sociale. Basta ricordare, con Sem Galimberti che “per Omero e per tutti i Greci antichi l’espressione ‘mangiatori di pane’ era sinonimo di uomini”.

La mostra in via Moroni 16 aggiunge un tassello a questa coerente, ispirata riflessione sull’operare dell’uomo in senso artigiano e artistico. Una proposta “semplice ma non superficiale”, che definisce la sigla inconfondibile di un autodidatta delle arti visive approdato, per istinto e intuizione, a una poetica efficace, lontana da speculazioni intellettuali e tantomeno intellettualistiche: già di per sé un valore aggiunto, nel panorama spesso lambiccato dell’arte contemporanea.

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