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Il processo

Il deposito di Cerete non era una discarica: in appello assolti in 6

La Corte d’Appello penale di Brescia ha riformato la sentenza di condanna emessa nel dicembre 2015 dal Tribunale di Bergamo

La Corte d’Appello penale di Brescia ha riformato la sentenza di condanna emessa nel dicembre 2015 dal Tribunale di Bergamo in composizione Monocratica, nei confronti di sei cittadini di Cerete Basso: i fratelli G. e B. E. G, i figli C. e S. G. e F. B. imputati del reato (previsto dall’art. 256) per avere nel 2012 realizzato un deposito di materiale inerte costituito da cumuli di ghiaia e massi di varie dimensioni per un quantitativo di 902 metri cubi – risultato della metà – sprovvisti delle necessarie autorizzazioni.

I sei imputati erano stati condannati a sei mesi di reclusione, senza sospensione condizionale della pena per cinque di loro.

Difesi dagli avvocati loveresi Giampiero Canu e Maria Susanna Canu, avevano proposto appello alla Corte bresciana, ritenendo la condanna gravemente ingiusta, e infondata sia nel fatto che in diritto.

La vicenda si riferisce a un progetto per la realizzazione di opere di recupero ambientale con sistemazione della scarpata a margine del torrente Borlezza regolarmente autorizzato dal Comune di Cerete nel 2007, con rilascio di Permesso di Costruire e autorizzazione paesistica.

Le autorizzazioni del Comune erano state rilasciate senza alcun problema, perché – come gli avvocati difensori hanno dimostrato – producendo una serie di documenti ufficiali, e fornendo prove testimoniali, il Comune era perfettamente a conoscenza che i terreni degli imputati e di altri abitanti di Cerete, presentavano un “elevato grado di erodibilità”, comprovato dalla Relazione geologica allegata al progetto e che pertanto subivano da molti anni gravi erosioni provocate dalle piene del torrente Borlezza, e altresì e sino all’anno 2003, dal malfunzionamento dello scolmatore del canale dell’impianto idroelettrico di una società milanese installato sul torrente Borlezza in Comune di Cerete.

La concessionaria dell’impianto idroelettrico, a seguito dell’intervento della Regione Lombardia, che aveva accertato le gravi erosioni, aveva costruito una scogliera nel torrente Borlezza. Ma il problema non era stato risolto definitivamente. Pertanto gli imputati, nel 2006, avevano presentato al Comune di Cerete un documentato progetto definitivo per l’esecuzione di opere di recupero ambientale con sistemazione della scarpata a margine del torrente Borlezza.

Le opere erano iniziate nel 2007 ed erano state in parte eseguite, però nel 2010 avevano subito un arresto a causa della crisi edilizia, che aveva provocato il fermo di scavi per la costruzione di case e capannoni. L’impresa che eseguiva i lavori autorizzati non aveva più a disposizione terre e rocce da scavo da utilizzare nel progetto autorizzato.

Il Comune di Cerete concedeva una proroga del Permesso di Costruire sino al luglio 2011. Prima della scadenza, perdurando lo stato di crisi dell’edilizia, gli imputati avevano chiesto un altro anno di proroga dei permessi che il Comune non aveva però concesso ritenendo – senza alcun previo accertamento – che fosse stato utilizzato un quantitativo di inerti da scavo superiore a quello permesso nel 2007. Nell’agosto 2012 disponeva un sopralluogo di Vigili e del responsabile dell’Ufficio Tecnico, che accertavano la presenza su alcuni terreni degli imputati di sei cumuli di inerti, depositati, ma non utilizzati dagli imputati in attesa del rinnovo della proroga del piano di costruzione. L’autorizzazione paesistica non era ancora scaduta.

Dall’accertamento partiva la denunzia alla Procura della Repubblica.

Gli imputati dimostrarono di non aver assolutamente superato il quantitativo concesso, tant’è che il Comune nel 2013, riconosceva con provvedimento di sanatoria la regolarità della presenza del piccolo quantitativo di materiale su alcuni terreni, perfettamente regolare anche alle analisi.

Addirittura nel 2015 avendo il Comune rinnovato i permessi per completare il progetto approvato nel 2007, quei materiali vennero utilizzati con altri materiali da cava per il completamento delle opere.

Il Giudice Monocratico del Tribunale di Bergamo, non tenendo conto delle risultanze documentali e testimoniali acquisite al processo, emetteva una Sentenza di condanna, senza concessione di sospensione condizionale della pena nei confronti di cinque dei sei cittadini tutti incensurati, ritenendo che il deposito effettuato nel 2012, configurasse una discarica di rifiuti e non un deposito di sottoprodotti da utilizzare – come sono stati regolarmente utilizzati – e come prevede l’art. 184 T.U.A.

Il Giudice, in netto contrasto con le plurime e pacifiche risultanze documentali e testimoniali raccolte nel processo, metteva in dubbio che sussistesse la necessità dei lavori sui terreni degli imputati frontistanti il torrente Borlezza.

All’udienza avanti la Corte d’Appello il Procuratore Generale della Repubblica riteneva fondati i motivi dell’appello e ne chiedeva l’accoglimento. La Corte d’Appello sulle concordi richieste del Procuratore Generale e dei difensori avv.ti Canu, ha assolto tutti gli imputati con la formula perché il fatto non sussiste.

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