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Cinema muto

“Ragazzi, fidatevi, il cinema muto è strepitoso!”

Stefano Buzzotta, classe 1993, ci fa sognare raccontandoci le sfaccettature belle ed inaspettate del cinema muto e bianco nero. Riuscirà a convincervi a vedere qualche pellicola?

In un momento storico in cui il rapporto tra il cinema e i giovani non pare idilliaco, può sembrare un’ingenua illusione l’idea di avvicinare i ragazzi, più o meno grandi, alla Settima Arte nelle sue fasi più embrionali e neonatali, quando ancora il dialogo non la faceva da padrone. Eppure, riscoprire i primordi dell’arte cinematografica potrebbe essere (a parere di chi scrive) una delle vie per esplorare con più consapevolezza la filmografia attuale, per capirne le radici, e per fare un tentativo di lettura dell’opera filmica che superi il semplice intrattenimento.

Il sonoro, indubbiamente, rende più coinvolgente la fruizione di una pellicola: si intuiscono meglio le sfumature caratteriali dei personaggi, la loro caratterizzazione è molto più precisa, intessere dei dialoghi fitti permette senz’altro una maggior complessità della trama. Ma il rischio incipiente è quello che il film si cristallizzi fin troppo intorno alla trama stessa, alle parole, e che gli altri aspetti che ne fanno un’opera d’arte passino in secondo piano.

Una pellicola, infatti, nasce come tentativo di fusione (montaggio) tra immagini, suoni, movimenti, espressioni recitative, luci, colori, costumi, musica e narrazione. Tutti questi elementi insieme creano una buona opera cinematografica, e diversificano i film stessi tra loro per genere, stile e obiettivo. Il rischio che la trama sia l’unico elemento a balzare all’occhio e a essere ricordato, per via dei dialoghi fitti, che non lasciano spazio ad altro, è forte.

Intendiamoci, non si sostiene che un film con una trama fitta o dialoghi serrati sia un brutto film, tutt’altro: l’accento della mia riflessione è posto sullo spettatore. È lui (o lei) infatti, a poter scorgere, dietro la trama e le parole, tutti gli altri elementi che venivano citati prima, altrettanto importanti. Allo stesso tempo, un’opera con splendida fotografia, o regia magistrale, ma con dei dialoghi scadenti, risulterà di scarsa qualità. Il succo del discorso, insomma, è questo: ogni elemento stilistico all’interno dell’artefatto filmico contribuisce a creare il film stesso e a renderlo peculiare. Il rischio che il dialogo, nella mente di chi guarda, ingombri il posto anche di altro, c’è.

Proprio per questo, la riscoperta del cinema muto può essere una sfida interessante. In un’epoca (stiamo parlando grossomodo dei primi trentanni del secolo scorso) in cui forzatamente le parole dovevano essere affidate a brevi didascalie, il focus era posto su altro. Sugli attori, che senza parlare dovevano far trasparire emozioni, stati d’animo, azioni; sul montaggio e sulle tecniche registiche, sulla luce, le ambientazioni, la musica. L’occhio dello spettatore non poteva (e non può) fuggire dall’obbligo di guardare il film, prima di capirlo. Di scorgere le scelte del regista, di pensare all’opera come un dono di immagini che grazie all’intesa tra regista e spettatore acquisisce un senso.

Come non emozionarsi di fronte al bimbo che ne Il Monello (1921), dell’immenso Charlie Chaplin, viene sottratto al padre adottivo e tende le braccia, disperato verso di lui, con in sottofondo una musica angosciante? Il piccolo non dice una parola, ma i suoi occhi, la disposizione delle cose, la colonna sonora, tutto contribuisce a creare empatia e dolore.

E ancora, nel capolavoro del maestro sovietico S. M. Ejsenstein La Corazzata Potemkin (1925), la tensione narrativa che emerge nel finale esplode in un montaggio frenetico che si esprime nell’accostamento di immagini inquadrate non più di tre secondi ciascuna, inanellate secondo una sequenza emotiva di cui lo spettatore si fa interprete e fruitore. Tutto accompagnato da una musica strepitosa e senza dialoghi di sorta.

Pur senza dialoghi, infatti, le emozioni generate possono essere davvero molteplici. Il mondo della comicità è ricco di esempi. Laurel & Hardy (da noi Stanlio e Ollio), grandi mattatori poi anche con l’avvento del sonoro, ma soprattutto Buster Keaton. Il funambolo dal sorriso triste ha creato, in decine di film, numerosissime gag assurde e surreali, che ancora oggi lasciano stupefatti per la loro genialità e per il rovesciamento di significati che creano, e tutto ovviamente senza dire una parola. Anzi, le parole sarebbero state forse un intralcio alle movenze circensi e impossibili del grande attore, nate proprio nel contesto del muto, e di fatto lì conclusesi, viste le enormi difficoltà che ebbe Keaton a reinventarsi con il sonoro. Anche lo stesso Chaplin, dopo l’avvento del sonoro, proseguì a produrre pellicole mute, passando a sfruttare la novità tecnologica solo nel 1940, con risultati eccezionali.

Infine, anche senza le parole è possibile creare terrore e angoscia. Basti pensare, ad esempio a Nosferatu (1922) del maestro espressionista tedesco F. W. Murnau. Il regista ci catapulta in un mondo di paure, ansie e vampiri sfruttando abilmente giochi di luci, espressioni mimiche, montaggio eccezionale e una meravigliosa colonna sonora. Rispetto ad un horror odierno, nulla di trascendentale; ma calata nella sua epoca, questa pellicola è davvero un capolavoro.

Il cinema muto può quindi essere considerato un mezzo per imparare a scorgere, anche nel cinema odierno, le sfaccettature che fanno di un film un’opera d’arte, al di là della sceneggiatura dialogata. Ovviamente l’avvento del sonoro è stato un valore aggiunto, ma se i vari ingredienti sono dosati bene, imparare a vederli e apprezzarli può donare un’emozione raddoppiata: i più grandi capolavori cinematografici di tutti i tempi tendenzialmente dispongono di una sceneggiatura eccezionale, di un’ottima regia, di un equilibrio formale tra immagini, interpretazioni, luci, musiche; provare ad apprezzare le diverse componenti è un esercizio, e il cinema muto, oltre a essere lo specchio di un’epoca, è una splendida palestra.

Per un giovane può non essere semplice approcciarsi alla fruizione di pellicole che possono apparire così distanti, stilisticamente ed emotivamente, dalla sensibilità odierna. Le opere che ho citato sono brevi e davvero splendide, si tratta solo di mettersi nello stato d’animo giusto per assorbirne l’essenza. Un passaggio più graduale può essere compiuto tramite la visione di The Artist, meraviglioso film del 2011 per la regia di Michel Hazanavicius, insignito di cinque premi Oscar, tra cui miglior film.

Muto e in bianco e nero, è una sfida strepitosa, vinta alla grande, e un omaggio agli albori della Settima Arte, rivisitata secondo tecniche più vicine allo spettatore odierno, ma con riferimenti e tematiche che si rifanno a quel mondo meraviglioso di cui questo film può essere un’eccezionale e confortevole porta d’ingresso.

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