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Bergamo

“Olivo e Pasquale”, riscoperta donizettiana coi fiocchi

Alberto Mattioli, tra i migliori critici italiani, ha visto e recensito per La Stampa, "Olivo e Pasquale" di Gaetano Donizetti che ha inaugurato la stagione lirica al teatro Sociale di Bergamo.

Alberto Mattioli, tra i migliori critici italiani, ha visto venerdì e recensito per La Stampa “Olivo e Pasquale” di Gaetano Donizetti che ha aperto la stagione lirica al teatro Sociale di Bergamo. Ecco cosa ne ha scritto.

Da quando ne è diventato direttore artistico il regista Francesco Micheli, malato incurabile di donizettite acuta, il Festival Donizetti di Bergamo ha sùbito subìto una benvenuta cura ricostituente. Cosa buona e giusta, perché in effetti Donizetti è l’unico dei nostri grandi operisti che abbia davvero bisogno di un Festival (a parte Mercadante, che non l’ha mai avuto), visto che la maggior parte della sua produzione continua a essere tuttora poco conosciuta e spesso è fraintesa.
L’edizione 2016 è partita ieri sera con la prima in epoca moderna della versione napoletana di «Olivo e Pasquale». È un melodramma giocoso di Jacopo Ferretti tratto da una commedia di Antonio Simeone Sografi: la prima versione andò in scena al Valle di Roma il 7 gennaio 1827, quella napoletana il 1° settembre successivo al teatro Nuovo, rifatta da Donizetti. Tre, fondamentalmente, le novità: i recitativi secchi diventano parlati; la parte di Camillo, l’amoroso, passa da un contralto en travesti a un tenore; quella di Pasquale viene riscritta in lingua napoletana.
Ora, non è che la riesumazione della versione alternativa di un’opera dimenticata di Donizetti sia di per sé un evento. Né si può francamente dire che da oggi non potremo più vivere senza «Olivo e Pasquale». Però ogni volta che si riscopre un suo titolo si fa un passo in più nella conoscenza di Donizetti, l’autore forse più sottovalutato e di certo più incompreso della storia dell’opera. E si ottiene l’ennesima conferma che non c’è sua opera, anche minore o perfino minima, dove non ci sia un frammento di genio. Donizetti attende ancora giustizia. E forse più ancora come drammaturgo che come musicista.
Prendete questo «Olivo». La trama è quella vista e rivista mille volte, il matrimonio per procura della figlia del mercante con uno sposo mai visto ma scelto del padre, mentre lei ovviamente ama riamata lo spiantato garzone di bottega. La variante rispetto allo stravisto è il ritrattino agrodolce di due fratelli, appunto Olivo e Pasquale, rispettivamente padre e zio della primadonna. Olivo è un workaholic dal temperamento irascibile fino alla caricatura, una specie di tagliatore di teste iperefficiente che semina il panico in ufficio e maltratta chiunque gli capiti a tiro. Pasquale è un pigrissimo pacioso e fatalista che invece prende il mondo come va, basta che il mondo non pretenda di farlo lavorare. E la commedia prende subito un’altra piega, magari un po’ meccanica, ma non scontata. I versi di Ferretti, peraltro, sono spiritosissimi.
E la musica? Un Donizetti trentenne e in carriera frenetica dimostra una perfetta padronanza dei ferri del mestiere, cioè di tutte le formule rossiniane di moda, una padronanza spinta quasi al plagio nel rondò finale che se non è quello della «Cenerentola» poco ci manca. Ma ogni tanto affiora il grande Donizetti che sarà, comico e non buffo, pronto a prendere in giro le convenzioni dell’opera (la parodia di quella seria è evidente), sentimentale e lirico. Basta ascoltare l’incantevole cabaletta del duetto fra soprano e tenore, che anticipa quella della «Linda di Chamounix». Insomma, le parti convenzionali sono di ottima convenzione; quelle non convenzionali fanno trasparire il Donizetti più personale. Basta e avanza a garantire due ore di piacere.
Merito, ovviamente, della proposta bergamasca. Sul fronte scenico, si poteva attualizzare tutto, dato che Olivo, come si è visto, è un tipo affatto contemporaneo (e poi che il fratello senza voglia di lavorare parli napoletano poteva anche suscitare qualche eco veteroleghista in queste plaghe del profondo Nord). I due di operAlchemica, i registi Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi, hanno invece preferito la strada del paradosso vagamente surreale. Dentro la bellissima scena, come un collage di ritagli di carta, indossando costumi sgargianti, i personaggi si muovono con divertita disinvoltura, le attese gag arrivano puntuali e tutti recitano bene, compresi i dialoghi, cosa mai scontata quando i cantanti parlano. Insomma lo spettacolo sta in piedi benissimo.
Altra buona idea, chiamare sul podio un barocchista come Federico Maria Sardelli. La sua direzione spiritata e spiritosa non è solo brillante, ma anche pragmatica. Inutile cercare nella partitura quel che non c’è, molto meglio valorizzare quel che c’è: emergono con energica puntualità il brio, la freschezza, l’intreccio contrappuntistico delle voci. E l’Orchestra dell’Accademia della Scala suona molto meglio con lui di quanto abbia fatto con Adam Fischer nell’ultimo catatonico «Flauto magico» milanese.
Anche la compagnia è ottima e favorita dall’acustica generosa del piccolo teatro Sociale, che fa sì che tutti sembrino avere molta più voce di quanta in effetti abbiano. Il migliore in campo è Bruno Taddia, che non ha magari un timbro privilegiata e deve cantare su una tessitura spesso un po’ troppo bassa per lui….

Ci fermiamo qui: la recensione completa potete leggerla sulla Stampa

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