L'addio

Fedele fino all’ultimo allo sberleffo, Dario Fo se ne torna alla sua Franca e a indagare sull’oltre

Stefania Burnelli ripercorre stile, carattere e carriera di Dario Fo

Aveva 90 anni ed era stato attivo fino all’ultimo presentando ancora pochi giorni fa il suo più recente libro, “Darwin”, dedicato al padre dell’evoluzionismo, del quale ci aveva parlato in una intervista esclusiva per BergamoNews. L’avevamo incontrato a Cesenatico, suo rifugio creativo, davanti a dipinti, grafiche, bassorilievi, sculture e pupazzi da lui creati per illustrare la vita del padre dell’evoluzionismo.

La scomparsa di Dario Fo, giovedì all’alba, ha ghiacciato l’Italia, lasciando generazioni di ammiratori col senso di vuoto per una persona che da molti era sentita come uno di famiglia. Ilare ma tagliente, serio ma ironico, eclettico e irresistibile. Moni Ovadia dice che è scesa un’eclisse sul teatro intero. Ma non è solo il teatro a piangere: Dario Fo aveva ottenuto il Nobel per la sua opera letteraria, un’imponente serie di testi teatrali tradotti e messi in scena ovunque nel mondo, sinonimo di rivolta e sapiente contestazione. Era un educatore instancabile, uno che la cultura la vestiva addosso ai giovani, agli umili, a quelli che il teatro lo sentivano come cosa “difficile”, e che lui amava far accomodare direttamente sul palcoscenico, intorno a sé.

Folletto eclettico in calzamaglia

Fo ha incarnato con il corpo, la calzamaglia nera, l’inarrivabile mimica e gestualità, l’idea stessa di teatro, portando alla dignità della scena gli ultimi, gli oppressi, i vessati, i ribelli. Il tutto con l’arte dello sghignazzo e dello sberleffo, sbugiardando il potere e ridicolizzandolo. Lo stesso stile che metteva nel cantare, nel comporre, nel dipingere, nel cucire fondali e costumi teatrali. E nello scrivere saggi, critica d’arte, libri di storia, canzoni, commedie, musical.

Commedia dell’arte

Dario Fo incitava i suoi allievi a “rubare” da lui come si fa in teatro per imparare ed arricchire il repertorio; ma a sua volta ha pescato a piene mani dalle più antiche radici della letteratura europea, dal grammelot, dai miti, dai testi sacri e dalle prime messe in scena medioevali, i “Misteri” da cui trasse il suo capolavoro, quel Mistero Buffo tanto sorprendente, recitato ancora con Franca Rame nel 2011 anche a Bergamo. Ha raccolto la Commedia dell’Arte del Ruzante e degli Zanni portandola ai suoi massimi vertici espressivi. Fo attualizzava il messaggio di denuncia dell’ingiustizia e dell’arroganza del potere già insito nel teatro popolare, il riso ed il canto come pratica militante per sfidare i potenti, per rivendicare uguaglianza e riscatto.

A Bergamo per la Filati Lastex negli anni 70

Moltissime le sue apparizioni e recite a Bergamo, in veste di attore regista e pittore. Incontrandolo a Cesenatico il pensiero è andato alle sue imprese di solidarietà, come quando nel 1974 si esibì nella fabbrica occupata simbolo della storia bergamasca, la Filati Lastex. Ne restano alcune registrazioni audio. O ancora a Ponteranica, in un circolo operaio dove il palco fu montato con assi sopra i campi di bocce. Nella città bianca e democristiana portò le sue riflessioni sul sacro e il popolare, un tempo scandalose ed oggi fatte proprie dal pensiero cattolico: la vicenda di San Francesco giullare di Dio e il suo dialogo con il divino, “Dario e Dio”, pochi mesi fa all’inaugurazione della Fiera dei Librai, in un teatro Donizetti stracolmo e fuori una lunghissima fila di giovani in attesa di entrare.

La carriera

Nato a Sangiano tra il lago Maggiore e la Svizzera, una terra ricca di suggestioni popolari, tra contrabbandieri e pescatori di frodo che affascinavano i ragazzi con miti, storie e favole, Dario Fo si forma alla Brera delle arti dove stringerà amicizia, tra gli altri, con Enrico Baj e Alik Cavaliere, cui lo legherà una durevole stima. Alla sua vena pitto-grafica, surreale e visionaria, la Galleria Olim di via Pignolo in Bergamo dedicò una mostra inedita, nel 2007.

Dopo l’esperienza radiofonica del “Poer nano”, il debutto teatrale nel 1953 al Piccolo di Milano con “Il dito nell’occhio”, un testo che rompe le convenzioni della rivista e già fa satira di costume. Poi il matrimonio con Franca Rame, figlia di una famiglia di teatranti girovaghi, bionda e bellissima. “Aveva fuori dal teatro le macchine di ricconi che l’aspettavano. Io non ero nessuno, ero uno spilungone tutto orecchie, intimidito dalla sua bellezza e dunque casto. Allora un giorno lei mi prese dalle spalle, mi mise contro un muro e mi baciò. Lì iniziò tutto”.

Il successo della compagnia “Fo-Rame”, con l’intensa produzione di straordinarie commedie satiriche e lunari, attira la Rai ‘democristiana’ di Ettore Bernabei che nel ’62 affida alla coppia di artisti la conduzione di Canzonissima. Gli sketch a sfondo sociale, sul malaffare e le morti bianche, fanno salire la tensione in Rai al punto che dopo sette puntate Fo e Rame sbattono la porta, per tornare in tv soltanto nel 1977, ormai da artisti di fama mondiale, con “Il teatro di Dario Fo”.

Inizia così il teatro politico di militanza, che sceglie circuiti alternativi, fabbriche, scuole, case di popolo, collettivi. Ma le rigidità del teatro militante sono superate nel 1969 con una impresa di altezza culturale ciclopica, in cui Fo e Rame riversano ricerca, studio, genio e talento: nasce il “Mistero Buffo”, riscritto fino ai nostri giorni mescolando grammelot, antiche giullarate, testi popolari e vangeli apocrifi.

Pur non interrompendo l’impegno e le recite dei testi più famosi, in giro per il mondo (ma gli USA gli rifiutano il visto d’ingresso) Dario Fo prende in mano nuovi fili, l’arte, la ricerca, la lirica, l’avanguardia musicale. Ad un pubblico in eskimo e un po’ stupito offre non slogan ma “Histoire du soldat” di Stravinskij (1978) e a seguire una serie di regie liriche.

La fama cresce fino al culmine del Nobel per la letteratura nel 1997, che lui ringrazia a modo suo: “Il vostro è un atto di coraggio che rasenta la provocazione”, disse rivolto agli accademici di Svezia, precisando: “un teatro, una letteratura, una espressione d’arte che non parli del proprio tempo è inesistente”.

Il Fo di questi anni

Fo è bulimico, iperproduttivo, “affamato”. Non più perseguitato ma osannato ovunque, impegnato in ogni ramo dell’arte, pittore ma anche storico e didatta, in dialogo con ogni parte della società, simbolo anche di superamento di barriere ideologiche in nome della passione artistica. Dialoga e recita con Albertazzi alla faccia di chi vuole eterne le barriere e le colpevolizzazioni. Si interessa al soprannaturale ma sempre con ironia e lucidità, soprattutto dopo la scomparsa di Franca Rame nel 2013.

Si getta in avventure politiche con entusiasmo giovanile, in nome di valori e coerenze esemplari, si candida a sindaco di Milano nel 2006; neanche il tempo di dispiacersi per l’esito negativo e si dà a nuove avventure artistiche, scrive romanzi e studia la storia delle persecuzioni degli zingari. Torna alla politica per appoggiare negli ultimi due anni il Movimento Cinque Stelle, e quel Grillo che lui ha conosciuto, comico e mattatore, che si comprava qualche azione delle grandi banche e multinazionali per andare alle assemblee dei soci e scardinare certezze e ipocrisie della finanza.

Negli ultimi tre anni era impaziente di fare, scrivere, parlare, dipingere. L’abbiamo visto due anni fa, in un lungo e impegnativo solo al Piccolo di Milano, recitare, danzare, cantare sulla storia di Ciulla, un romantico falsario a fin di bene. O ancora trasformare il Palazzo Reale di Milano, sede di una sua grande mostra, in un palcoscenico “continuo” nel quale recitare e cantare sempre fuori dagli schemi.

Se ne va nello stesso giorno in cui Bob Dylan, un altro cantore-menestrello della controcultura, ottiene il Nobel per la letteratura. Un passaggio di testimone che forse ha poco di casuale.

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