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Grande Guerra, Pillola 88: la sagra di Santa Gorizia, prima vera vittoria dell’Intesa fotogallery

Per la prima volta, gli italiani si misero d’impegno a studiare il campo di battaglia, non confidando più nell’impeto garibaldino delle proprie fanterie, ma preparando meticolosamente il successo a tavolino: dopo quattordici mesi di guerra e di sforzi sanguinosi quanto inutili, i comandi italiani stavano imparando ad adattarsi alle esigenze di un conflitto moderno.

La sesta battaglia dell’Isonzo rappresenta, sotto molti punti di vista, un fondamentale punto di svolta nell’andamento della guerra sul fronte italiano e può essere assunta a paradigma di come avrebbero potuto e dovuto essere condotte tutte le battaglie da parte del regio esercito. Per cominciare, la sesta spallata italiana fu la conclusione di un’unica, gigantesca e lunghissima battaglia per la presa di Gorizia: erroneamente, secondo chi scrive, questa campagna, durata più di quattordici mesi, viene spesso studiata come un tassello del più vasto mosaico del conflitto carsico-isontino e non come un unico scontro, senza soluzione di continuità. Essa, invece, andrebbe considerata, al pari di Verdun, della Somme o di Ypres, un’unica battaglia, dalle caratteristiche sue proprie e dall’andamento relativamente autonomo, rispetto al resto dello scacchiere, e come tale analizzata.

Gorizia, che, prima della guerra era stata una rinomatissima città di vacanze della nobiltà asburgica ed europea, era un obiettivo centrale di tutta la guerra: posta allo sbocco dell’Isonzo nella pianura friulana, era la porta che, una volta scardinata, avrebbe permesso di dilagare, per la Bainsizza e per Chiapovano, verso Lubiana e, in definitiva, di risolvere strategicamente il conflitto, facendo cadere per aggiramento l’intero dispositivo difensivo austroungarico, da Trieste a Plezzo.

Difendevano questa porta due formidabili serrature: il San Michele, a est dell’Isonzo, e la testa di ponte, formata dai rilievi del Calvario-Podgora, del Grafenberg, di Oslavia e, soprattutto, del Sabotino, a ovest del fiume. Per prendere la città, si dovevano conquistare questi rilievi, dall’altezza modesta (si va dai 275 metri del San Michele ai 609 del Sabotino) ma che davano un enorme vantaggio logistico ai difensori, rispetto a chi attaccasse dalla pianura, senza possibilità di osservazione né campo di tiro e andando all’assalto sempre da posizioni dominate dall’avversario: contro questi poderosi frangiflutti si erano infrante le successive ondate degli attacchi italiani, proprio come una mareggiata.

Le quattro cime del San Michele, le trincee del Calvario, le pendici di Oslavia e del Sabotino erano coperte di morti, che si erano accumulati in più di un anno di tentativi infruttuosi di conquistare quei terribili baluardi, che le truppe austro-ungariche difendevano tenacemente e con grande valore: va considerato anche che il territorio era stato sapientemente disposto a difesa, con la creazione di un gran numero di gallerie e di strutture fisse, che permettevano un’efficacissima difesa ed avevano trasformato quelle posizioni, già forti naturalmente, in autentiche fortezze. A questo si aggiunga l’accuratezza del tiro delle artiglierie medie e pesanti austro-ungariche, che, grazie agli osservatori posti in posizione eminente, potevano bersagliare da posizioni defilate e sicure le linee italiane. Insomma, la situazione alla soglia di Gorizia era tremendamente complicata per gli attaccanti.

Dopo tanti sanguinosi fallimenti, Cadorna voleva che un nuovo attacco verso il capoluogo isontino venisse orchestrato in maniera impeccabile, con mezzi adeguati e, soprattutto, con un’impostazione tattica nuova, rispetto ai tradizionali assalti in massa, preceduti da lunghe quanto inutili preparazioni d’artiglieria: proprio da questa necessità di mutare il modello di attacco nacque la sesta battaglia dell’Isonzo. La straordinarietà di questa operazione risiede anche nelle sue premesse logistiche e non solo nelle modalità di effettuazione: l’Italia aveva appena subito e rintuzzato l’offensiva austroungarica sugli altipiani e in Trentino, che aveva imposto uno sforzo logistico immane, con lo spostamento di circa 130.000 uomini dall’Isonzo alla pianura vicentina: in tempi rapidissimi e con un’eccezionale dimostrazione di efficienza, questi stessi soldati furono riportati nel settore di Gorizia, per partecipare all’attacco finale contro la soglia.

Insomma, gli italiani, in questo caso, si dimostrarono bravissimi proprio in quel campo in cui, fino a quel momento, erano parsi più deboli, ossia la pianificazione, la progettazione e la sincronizzazione delle operazioni. In realtà, però, le novità apportate nell’esercito italiano dalla battaglia di Gorizia furono numerose: ad esempio, l’introduzione della bombarda come arma determinante nel tiro di distruzione dei reticolati e di spianamento delle trincee avversarie.

La bombarda, nei due calibri standard utilizzati nella sesta battaglia dell’Isonzo, ossia 58 e 240 mm., era un’arma semplicissima, dal costo irrisorio rispetto ad un comune pezzo d’artiglieria, e dalla rapida realizzazione: si trattava di una sorta di mortaio a canna liscia, in grado di lanciare a brevi distanze (inferiori ai 2 km) e con parabola molto curva, grossi proiettili dotati di semplici alette direzionali che, a differenza di quelli sparati da un normale cannone, non richiedevano un involucro spesso e resistente ed avevano, perciò, un rapporto assai favorevole tra peso totale e quantità di esplosivo.

Queste grosse bombe sradicavano letteralmente dal suolo i paletti dei reticolati, ed erano, finalmente, un’arma efficace per aprire ampi varchi per le fanterie attaccanti. Il basso costo e la rozza tecnologia permisero agli italiani di produrre velocemente un gran numero di bombarde, che riempirono i vuoti determinati dalla scarsità di batterie medio-pesanti, che, dall’inizio del conflitto, affliggeva l’artiglieria italiana.

Un altro aspetto che si rivelò determinante nella conduzione dell’attacco a Gorizia fu quello della preparazione capillare dell’operazione: niente fu lasciato al caso, dalla tecnica di approccio alle linee avversarie ai lavori di avvicinamento nella terra di nessuno, dal rilevamento ed inquadramento delle batterie, grazie all’osservazione aerea, fino alla dotazione di segnali per le fanterie da utilizzare mano a mano che venissero conquistate le posizioni austro-ungariche, allo scopo di fare allungare il tiro delle artiglierie davanti agli attaccanti.

Insomma, per la prima volta, gli italiani si misero d’impegno a studiare il campo di battaglia, non confidando più nell’impeto garibaldino delle proprie fanterie, ma preparando meticolosamente il successo a tavolino. Finalmente, dopo quattordici mesi di guerra e di sforzi sanguinosi quanto inutili, i comandi italiani stavano imparando ad adattarsi alle esigenze di un conflitto moderno.

Va detto che neppure gli altri eserciti, impegnati, peraltro, da molto più tempo, avevano elaborato delle tattiche di attacco veramente incisive e che, anche sugli altri fronti, si cominciava, soltanto in quel fatidico 1916, a cercare nuove modalità per superare il terribile impasse della guerra di posizione.

Rimane da sottolineare, in conclusione di questa breve parte introduttiva alla battaglia di Gorizia, che, se qualcuno, in quel momento, stava vincendo la guerra, questi erano gli imperi centrali: l’Intesa arrancava, dopo il drammatico fallimento dell’offensiva sulla Somme e mentre l’avanzata germanica a Verdun stava giungendo al suo apice.

Anche per questo, la conquista di Gorizia avrebbe rappresentato un successo dalla straordinaria importanza, anche dal punto di vista morale e propagandistico. Non si deve mai dimenticare che tutto quello che accadeva su uno dei fronti della prima guerra mondiale si ripercuoteva, inevitabilmente, sul contesto generale: solo così si può cogliere appieno la reale importanza di ciò che accadde sulle sponde dell’Isonzo in quell’agosto di cento anni fa.

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