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Musica

Il discomane

The 1975? Pollice verso di Brother Giober che plaude invece i Simo

Non si sbilancia quasi mai il Discomane, quando un cd non gli va evita di recensirlo, ma fa un'eccezione per The 1975: girate alla larga, invita. Non male invece "Let Love Show The Way" dei Simo come l'ultimo lavoro dei La Sera.

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** in fin dei conti, poteva essere peggio

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

ARTISTA : Simo

TITOLO: Let Love Show The Way

GIUDIZIO: ***1/2

A volte per fare un buon disco sembra non volerci un granché: onestà, preparazione, amore per quello che si fa. Ed è questo il caso dei Simo, un trio proveniente da Nashville che prende il suo nome dal chitarrista J.D. Simo, personaggio dalle sfaccettature romantiche come la sua storia che, musicalmente, inizia a dieci anni quando già si guadagna da vivere suonando la chitarra nei bar di Chicago, la patria del blues.

Nel 2000, a 16 anni, interrotti gli studi si trasferisce a Phoenix, Arizona, dove forma la sua prima band e riesce ad incidere un EP dal vivo che vende qualche migliaia di copie ma che non gli cambia, almeno economicamente, la vita, tanto che per sei anni vive nella più totale emergenza, dormendo prima per strada e poi dove capita, sino a quando si trasferisce a Nashville, patria del country, dapprima chitarrista nella Don Kelly band, poi turnista apprezzato.

È qui che avviene l’incontro con il batterista Adam Abrashoff e con il bassista Frank Swart i quali lo convincono a formare una band avendo nelle orecchie i suoni dei Cream piuttosto che di Jimi Hendrix. Il successivo avvicendamento di Swart con Elan Shapiro darà al trio il suo assetto attuale.

Ascoltare i Simo e comprendere le influenze è un attimo: la psichedelia degli anni ’60, il British blues del decennio successivo, Elvis Presley, i Blues Brothers, Stevie Ray Vaughn, la Allman Brothers Band, tutto shakerato in una amalgama che profuma di classico ma che sa anche di fresco e inebriante. Si sente che i musicisti hanno girato in lungo e in largo, che hanno suonato ovunque possibile. E questa esperienza è tutta trasferita in Let Love Show the Way.

L’intro è affidato a un classico, ossia Stranger’s Blues di Elmore James: il ritmo è serrato, i suoni e le battute sono quelli classici del blues (con immancabile “solo” nel mezzo): nonostante ciò l’esecuzione suona per nulla scontata, anzi mantiene una carica e una freschezza entusiasmanti.

È un’originale invece la successiva Two Timin’ Woman ed il registro sonoro cambia: meno blues e più rock sudista e l’evidente sensazione che i nostri abbiano imparato a menadito la lezione della Allman Brothers Band, mentre ha movenze più hard la ritmata Can’t Say Her name che ha dalla sua un “tiro” formidabile e chiare reminiscenze degli anni ’70, Il suono in particolare è immediato e diretto perché riprendendo le parole di J.D. Simo “Quello che suoniamo è anche quello che finisce sul disco. Non ci sono sovraincisioni. Voglio che il nostro sound sia inalterato e puro”.  Il risultato finale è eccellente.

Più cupa e influenzata dall’hard rock è la successiva I Lied, dove a colpire è la forza dirompente, l’impatto violento che avvicina il suono ad alcune performance fine anni ’60 (MC5 in primis). Vi è peraltro spazio anche per composizioni più leggere a metà via tra il pop e il rock da FM come nel caso di Please che però colpisce per la freschezza e la facilità di scrittura.

Suoni psichedelici, chitarre distorte, Jimi Hendrix, Cream e Led Zeppelin è tutto quello che potrete trovare in Long May You Sail, una composizione di quasi cinque minuti, con un riff strumentale che resta nella mente che precede I’ll Always Be Around, un grande brano che richiama alla mente alcune delle più belle pagine del rock sudista degli anni ’70, recentemente rispolverate più che dignitosamente dai Blackberry Smoke e che fondano la propria riuscita sul connubio tra blues , country e rock.

Becky’s Last Occupation ha le sonorità del rock blues con evidenze hard e richiama i Led Zeppelin, piuttosto che il grande Steve Ray Vaughn, anche se il fraseggio chitarristico di J.D. Simo è ancora lontano dalla qualità e dalla fantasia di quello di Jimmy Page; ad ogni modo benché il brano non brilli per originalità, si f ascoltare con un certo piacere immaginando ciò che potrebbe diventare “on stage”.

Dura quasi dieci minuti I’d Rather Die in Vain, una lunga cavalcata psichedelica, con accenni neppure troppo celati di hard rock, che risente fortemente ancora dell’influenza di Jimi Hendrix che Simo, talvolta e questo è il caso, ricorda anche nel cantare. Il brano è l’occasione per dare libero sfogo all’inventiva dei musicisti e alla loro abilità strumentale ma, francamente, avrebbe potuto durare anche la metà del tempo, ne avrebbe guadagnato in immediatezza anche se alcuni cambi di ritmo ed atmosfera in realtà rendono più agevole arrivare alla fine.

Chiude il lavoro Today I’m Here e lo fa in modo inusuale perché il brano è in realtà una ballata acustica, vagamente bluesata, delicata, ridotta ad una strumentazione acustica ed essenziale, che evidenzia le capacità compositive di Simo e che lascia nelle orecchie dell’ascoltatore una nota di dolcezza.

Il disco poi, nella sua edizione deluxe, contiene tre bonus track tra le quali, inaspettatamente, anche il brano che dà il titolo al lavoro e che è una ballata di circa sei minuti, intensa nell’interpretazione, e vissuta tutta su un filo di tensione creato dal succedersi di periodi di calma con altri musicalmente più incisivi, e da interventi chitarristici marcati.

Segue poi Ain’t Doin’ Nothin’, lunghissimo – oltre 13 minuti – che paga ancora pegno alla grande Allman Brothers band, e stanca anche un po’ benché mi renda conto che l’intenzione, genuina, sia quella di far rivivere un’epoca oramai passata dove la musica non era un prodotto di puro consumo ma rappresentava ben di più.

Termina il lavoro Please Be With Me, un’altra perla acustica, che mi ha ricordato alcune tracce di Quah!, il capolavoro di Jorma Kaukonen.

In definitiva, bel disco, forse un po’ prolisso e ingenuo per certi versi, ma onesto e sincero… di chi è cresciuto con in testa il bisogno di “fare musica” fregandosene di tutto quanto vi sta attorno e senza l’ansia di inseguire il successo ad ogni costo.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: Please Be With Me

Se non ti basta ascolta anche:

Allman Brothers Band – Brothers and Sisters

Blacberry Smoke – Holding all the Roses

Lenny Kravitz – Let Love Rule

 

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ARTISTA : The 1975

TITOLO: I like It When I Sleep

GIUDIZIO: *

Ecco una recensione che mi ha creato qualche imbarazzo, perché credo che, a prescindere dal battage pubblicitario, questo sia proprio un brutto disco e i The 1975 nient’altro che un gruppo un po’ più cresciuto rispetto ad una boy band qualsiasi. Ma tant’è.

Simo

I The 1975 sono inglesi, vengono da Manchester e si sono formati nel 2002. Sono autori di 4 EP e di un album d’esordio, nel 2013, passato sotto il più assoluto silenzio.

Qualche giorno fa il loro ultimo disco appare tra le novità di Itunes e, nella vetrina, in una posizione di assoluto rilievo. I commenti sono tutti positivi tanto che la votazione media è la massima possibile; anche se non attribuisco molto peso a questo genere di valutazioni, la curiosità è tanta per cui decido di scaricare il lavoro. Intanto vado su Google per cercare qualche articolo che parli di loro, li trovo tutti in inglese, e tutti mediamente benevoli nei confronti del lavoro. Allora mi dico “forse è il caso che li ascolti”.

Ed in effetti I Like è un disco che si fa ascoltare… poco: si sente che i musicisti sanno suonare, che alla produzione c’è qualcuno che sa dove mettere le mani. La musica pesca a piene mani dagli anni 80: synt alla Duran Duran, ritmi sincopati che ricordano molto da vicino gli INXS, melodie che riecheggiano alcuni motivi di Hall & Oates, coretti alla Prince e altre amenità varie. Ma il risultato è deludente, mancano proprio le canzoni .

Molta plastica si sente nei solchi per un risultato che avrebbe comunque potuto essere ben migliore. Oddio qualche eccezione c’è: bella è Love Me con il suo riff chitarristico rubato alla band australiana del compianto Michael Hutchence, mentre UGH pare presa paro paro da un album di qualche decennio fa del genietto di Minneapolis.

Non mancano i brani alla George Michael che, ovviamente non poteva mancare in questa parata di eroi ‘80/’90: così A Change of Heart è una ballata di quelle che un tempo consentivano anche ai più timidi sortite imprevedibili con l’altro sesso, mentre I believe in You è ancora una volta un troppo evidente omaggio al Prince che era solito portare all’estremo la sensualità nelle sette note.

Stucchevole Please Be Nacked che con le sue ambizioni “ambient” rischia veramente di addormentare l’ascoltatore, così come la successiva Lostmyhead (scritto proprio così), in realtà un tentativo mal riuscito di creare un wall of sound sul quale innestare le declaratorie del cantante per tentare di creare un atmosfera sognante. Pessimo.

Non migliora la situazione con la title track una sorta di pasticcio new age che però è di una noia mortale, per nulla suggestiva come invece avrebbe voluto essere nelle intenzioni dei The 1975.

Vi sono poi alcune sortite nel pop più convenzionale come in She’s American, dove la nostalgia ammanta di sé ogni tentativo di proporre qualcosa di originale, accontentandosi di assuefare l orecchie ai suoni degli anni ’80 o come Somebody Else, un brano vagamente dance che però ha una melodia, un ritmo e un arrangiamento che, alla fine , riescono a costruire un prodotto finale riuscito che potrebbe anche alla fine piacere ad un pubblico più vasto.

Senza né capo né coda è The Sound (un po’ d’umiltà please), mentre This Must Be My Dream è un chiaro omaggio ai gruppi elettro pop del passato: qui qualche buona idea in realtà c’è anche, manca una linea melodica che non sia banale come invece quella del brano è. Vi è pure qualche tentativo di riecheggiare Hall & Oates , ma vi prego lasciate stare gli dei dell’Olimpo.

Zucchero da ulcera perforata è quello di Paris, canzone che sotto mille vesti è stata proposta molto meglio da almeno una ventina di gruppi dediti al culto dei ritmi sintetici, mentre se proprio si vuol trovare qualcosa di buono non mi sembra malaccio Nana, acustica dalla bella trama melodica.

Chiude il tutto She Lays Down, una sorta di prosecuzione del brano precedente e ancora piacevole, dove la semplicità evidenzia una capacità di comporre che invece appariva del tutto annichilita dai pasticci strumentali delle tracce precedenti.

Stavolta no, non è un bel disco, anche se qualche brano risulta passabile: ma 4 o 5 su 17 son troppo pochi, in compenso 17 canzoni son proprio troppe. Girare al largo.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: Nana

Se non ti basta ascolta anche:

INXS – Undermeath the Colours

Prince – 1999

Power Station – The Power Station

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ARTISTA : La Sera

TITOLO: Music For Listening to Music

GIUDIZIO: ***

Ecco qualcun altro che si richiama agli anni ’80, e con risultati per niente disprezzabili. I La Sera sono un duo composto dall’ex-Vivian Girls, Katy Goodman e dal marito Todd Wisenbaker. Di loro non so molto, me li fece conoscere, e apprezzare, l’amico Diego Perini, lettore paziente delle mie recensioni.

the 1975

Il disco è prodotto nientemeno che da Ryan Adams e ispirato, secondo le parole di Katy, da alcuni dischi del passato degli Smiths, pensiero contraddetto poi da un’altra successiva dichiarazione e cioè quella di voler fare un “classic american album“.

In realtà quest’ultima dichiarazione appare un po’ fuorviante perché se è pur vero che qualche vaga influenza country c’è come nel brano di apertura High Notes, del tutto convincente nel ritmo e nella presenza di strumenti come l’armonica posta alla fine della composizione, è pur vero che l’ispirazione generale del disco sta da tutt’altra parte.

Il duo fa in realtà produce una musica sognante con chiari riferimenti ai Blondie, ai Beach Boys, e per ultimi ai grandi Tame Impala e tutto secondo un certo gusto tipico di alcuni artisti degli anni ’80 che segnarono il ritorno a un pop di gran classe, capace di unire facili melodie a strumentazioni per nulla complesse, il tutto per facilitare l’affermazione di un genere in grado di privilegiare semplicità ed immediatezza e che ebbe in Elvis Costello e Nick Lowe alcuni degli alfieri più importanti. Sia ben chiaro però che i La Sera fanno una musica del tutto diversa.

A Thousand Ways è un brano suonato in punta di dita, dove la voce angelica della Goodman è perfetta per dare al brano il senso di una sorta di sogno, oppure Shadow of Your Love che, con un po’ di vostra buona volontà, sarà in grado di trasportarvi in un mondo parallelo dove tutto vi sembrerà migliore o ancora Begins To Rain, essenziale nella melodia e nell’accompagnamento strumentale e con un accompagnamento ritmico che fa tanto “figli dei fiori”.

Ci sono però brani anche di spessore più marcato come Take My Heart, una ballata nostalgica basata su giro quasi ipnotico della chitarra e una serie di lievi stop che danno cadenza al brano e lo rendono imprevedibile nel suo sviluppo.

Ha ritmo più spedito I Need an Angel e questa volta il canto di lei è doppiato dalla presenza della voce di lui. Qui i La Sera ricordano alcuni gruppi Low–fi del passato che tutti dal primo album dei Modern Lovers hanno attinto a piene mani.

L’irruenza di Time to Go mi ha ricordato gli amati X di Los Angeles, anche se questi avevano una forza corrosiva dieci volte superiore.

E’ la voce maschile di Todd Wisenbaker quella di Nineties, una bella ballata pop, con una discreta melodia, che riesce a farsi piacere, mentre la chiusura è affidata a Too Little Too Late, altro brano lento che suggella un album riuscito. Anche se io preferivo i La Sera del precedente dove i brani, per la loro semplicità ed immediatezza, erano pura acqua fresca.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco:  High Notes

Se non ti basta ascolta anche:

Ryan Adams – Gold

Tame Impala – Currents

Simon & Garfunkel – Bookends

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