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Utopia e inquietudine: l’eredità American dream

Che cosa resta oggi dell'American dream? L'utopia e l'inquietudine, sembra essere la risposta dei due giovani, già affermati, artisti born in Usa che espongono alla Gamec fino al 15 maggio, Ryan McGinley e Rashid Johnson, entrambi classe 1977.

Che cosa resta oggi dell’American dream? L’utopia e l’inquietudine, sembra essere la risposta dei due giovani, già affermati, artisti born in Usa che espongono alla Gamec fino al 15 maggio, Ryan McGinley e Rashid Johnson, entrambi classe 1977.

Le due mostre sono curate da Stefano Raimondi, inoltre in mostra ci sono anche, all’ultimo piano, le nuove donazioni per la Gamec. 

Il fotografo McGinley, con i suoi spazi sconfinati e abbacinanti, dalle tinte quasi psichedeliche, intrise di sole o bruciate dal gelo, coltiva il mito di una giovinezza fermata sulla soglia di un’età immacolata ed incerta, proiettata in un universo incantato e incantatorio.

L’eclettico visual artist Johnson, con le sue gabbie-scaffali che reggono tracce di vita vissuta, cataste di piante e pile di libri, bozzetti, spessori e fragranze di cera, sapone, burro di karité, lascia sedimentare memorie individuali e collettive ricomponendole in provvisori dispositivi che “mettono in ordine il mondo” almeno per la durata di un allestimento.

Sono due volti diversi, per certi aspetti anche speculari, di un Paese in cui convivono vastità interminate e claustrofobie metropolitane, dove la periferia è spesso il centro e viceversa, dove le identità possono essere così frammentate da reinventarsi con libertà straordinaria e imprevedibile.

E’ tutto molto americano nella poetica di questi due artisti, e l’esposizione mette a qualche prova le consuetudini del nostro sguardo.

In McGinley la bellezza dei giovani corpi, sempre ripresi nudi, è algida e remota, e l’artificio dell’atmosfera è straniante attraverso le “Quattro stagioni” che scandiscono il percorso: modelle in posa a zero gradi entro maestose formazioni glaciali (non manca un corpo sanguinante per le cadute), teenager in fuga tra lapilli di giochi pirotecnici, adolescenti in volo libero nel mezzo di una tempesta silvestre, riversi su automobili che affondano in una palude, appesi a sontuose vegetazioni di “muschio spagnolo”.

Non stupisce che McGinley abbia lavorato molto per la pubblicità, realizzando campagne per marchi mondiali, Dior, Klein, Missoni, Nike: il suo rigore tecnico è seducente, il maxi formato landscape delle fotografie è “impressive”, certe impaginazioni dell’immagine sono citazioni volute d’arte classica. Ma la costruzione dell’insieme ha risvolti anche angosciosi, il che rende se mai più interessanti questi scatti dall’apparente carica vitalistica che qualcuno non esita a definire opera del “fotografo più importante d’America”.

Rashid Johnson rintraccia invece le sue ragioni (“Reasons” è il titolo della mostra) in materiali ed elementi caratteristici della storia e del costume degli afroamericani. La sua operazione è concettuale e simbolica, ma è anche fatta di fisicità e di corpo a corpo con la materia, come nel caso delle opere eseguite a cera e sapone su superfici quadrettate di piastrelle o a specchio, che fissano in un magma di segni l’ansia e le nevrosi della contemporaneità in cui l’artista si riconosce.

Il centro della grande sala dello Spazio Zero è occupato dall’imponente “Fatherhood”, un traliccio reticolare d’acciaio che da terra arriva quasi al soffitto, popolato soprattutto da piante, tra cui si distinguono dei libri e qualche soprammobile.

Al centro della struttura, a dare titolo all’opera, il libro “Fatherhood” di Bill Cosby, personaggio oggi controverso ma di straordinaria popolarità negli anni ’70 e ’80 per il “Bill Cosby Show” e per la serie cult dei “Robinson”, di eco planetaria: un’icona tv afroamericana davvero long-lasting, che riflette la complessità del tema identitario e i paradossi e le contraddizioni del mondo della comunicazione, del mercato e del successo. Tra gli affollati ripiani della memoria l’artista Johnson colloca anche nostalgie di vinile quali le note di Oscar Brown, reperti marini, libri di attualità sociale come “The Rage of a privileged class” di Ellis Cose, best seller del 1993 che denunciava che per la middle class afroamericana l’American dream era lungi dall’avverarsi.

Un sogno, quello a stelle e strisce, che traspare ancora oggi come illusivo, anzi chimerico, dalle opere di Ryan McGinley e Rashid Johnson, artisti di punta di un art system che rilancia e reinventa oggi l’immaginario di una nuova cultura pop dell’era web 3.0.

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