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Grande Guerra, Pillola 69: la guerra dei forti tra Veneto e Trentino fotogallery

Italiani e austroungarici avevano disseminato crinali e altipiani di forti e sistemi fortificati: oggi molti di questi sono visitabili e qualcuno possiede anche strutture museali per escursioni di grandissimo interesse storico e paesaggistico.

Esattamente come nel caso delle vallate che univano la Lombardia all’impero austroungarico, anche nel caso del confine tra Veneto e Trentino sia l’Italia che l’Austriaungheria avevano disseminato crinali ed altipiani di forti e sistemi fortificati, a dimostrazione di una fiducia reciproca che non era mai stata assoluta.

Questo fatto determinò, almeno nelle prime settimane di guerra, una comune stasi delle operazioni campali, cui si contrappose un’intensa attività di artiglierie. Naturalmente, stante la natura dei bersagli, che erano fortezze che, per quanto talvolta obsolete, offrivano un’accettabile resistenza al tiro dei calibri da campagna, questo gigantesco scontro a distanza venne affidato soprattutto alle artiglierie d’assedio e ai rari supercalibri che i contendenti possedevano in quel settore, mentre le fanterie, in linea di massima, cercavano di mantenersi fuori della portata delle fortificazioni avversarie.

Trascurando, poiché veramente infinitesimali, le azioni nel settore dell’alto Garda, culminate con la battaglia di Dosso Casina, sull’Altissimo, del 21 ottobre 1915, nota più per l’apporto dei volontari futuristi che per la sua reale importanza, è opportuno concentrarsi sulla cosiddetta “battaglia dei forti”, che interessò gli altopiani di Lavarone, Folgaria, Asiago e, soprattutto, Luserna: addirittura una delle prime iniziative ostili della prima guerra mondiale sul fronte italiano fu il bombardamento iniziato alle 4 del mattino del 24 maggio 1915 da parte del forte italiano Verena, ai danni del suo equivalente nemico Verle.

Questo primo colpo di cannone diede il via ad un bombardamento generale, in cui questi colossi di acciaio e cemento cercavano di colpirsi a vicenda e di annientare le rispettive cupole corazzate. Naturalmente, i tiri d’aggiustamento spesso risultavano di molto fuori bersaglio, e non di rado cadevano sugli abitati, causando il panico e la fuga delle popolazioni civili, come nel caso delle granate italiane indirizzate contro il forte-osservatorio Spitz, che, scavalcando la cima appuntita di Vezzena, cadevano sui paesi della sottostante Valsugana, come Levico e Caldonazzo.

Intanto, gli Austroungarici pensarono bene di aggiustare la propria linea difensiva, che passava poco ad ovest di Primolano, retrocedendo fino ad un fronte meglio difendibile (che, infatti, rimase pressochè invariato per tutta la guerra) che andava da Levico a Borgo Valsugana e permetteva di collegare il sistema fortificato degli altipiani con quello dei Lagorai: l’ennesimo esempio di cessione ragionevole di qualche chilometro per ottenere enormi vantaggi strategici, che era la cifra caratteristica dell’esercito imperiale in Italia.

Nel frattempo, le artiglierie italiane consumavano grandi quantità di proiettili con risultati ragguardevoli: un colpo su cinque (5.000 circa su 20.000 sparati) raggiunse il forte Verle, letteralmente demolito dalle esplosioni ed abbandonato per qualche giorno, mentre solo l’intervento dei forti vicini, che iniziarono a colpirlo per rappresaglia, evitò la resa del malconcio Luserna.

Il 30 maggio, sfruttando il buon momento, gli italiani tentarono anche di fare avanzare le loro fanterie, ma finirono bloccati dai reticolati e sotto il tiro congiunto dello Spitz e del Luserna, ebbero perdite assai gravi. Ben presto sarebbero arrivati in quel settore di fronte rinforzi austriaci per superare la crisi iniziale e gli italiani avrebbero perso un’altra occasione di risolvere il conflitto in breve tempo, che è un po’ la chiave interpretativa di quel 1915.

Per liberarsi dell’autentica spina nel fianco rappresentata dal forte Verena, gli Austroungarici decisero di impiegare i loro gioielli più preziosi, ossia i formidabili mortai Ŝkoda da 30,5 cm: armi potenti e precise, tra le migliori dell’intero conflitto: ben presto, anche la fortezza italiana fu ridotta ad un cumulo di macerie, sotto i colpi di maglio nemici.

Questa prima, violentissima fase della guerra dei forti si concluse abbastanza presto, dopo soli 8 giorni, per i gravi danni subiti dalle strutture, che necessitavano di urgenti riparazioni, e per il terribile consumo di munizioni: il duello di grossi calibri riprese, con rinnovata energia, all’inizio del mese di agosto. Per dieci giorni, i forti italiani tempestarono i loro bersagli, semidistruggendo il Verle, e danneggiando molto gravemente lo Spitz e il Luserna, la cui guarnigione, resa quasi folle dai bombardamenti, abbandonò la struttura, ammutinandosi.

Il 25 agosto, ritenendo nuovamente di avere messo in ginocchio le difese avversarie, scattarono le fanterie italiane, con il consueto impeto, ma anche con la consueta tattica ottocentesca: i veterani di Serbia e Galizia accolsero le masse di soldati del regio esercito con un tiro preciso e micidiale che li falciò. Nell’attacco al Basson, sotto il passo Vezzena, vi fu una vera carneficina: gli attaccanti ebbero un migliaio di caduti, contro un totale di 1.650 morti in tutto quel settore nei primi mesi di guerra. Sorte analoga toccò ai valorosi che attaccarono lo Spitz. Gli Austroungarici, ben riparati e protetti da sbarramenti profondi di filo spinato, lamentarono pochissime perdite.

Mentre la guerra offriva una pausa ai combattenti, i comandi imperiali, in vista della progettata grande offensiva di primavera 1916, decisero di chiudere i conti col Verena, e schierarono in val Sugana un gran numero di batterie superpesanti per annientare definitivamente la fortezza nemica: 4 obici Krupp da 42 cm, le mostruose “Grosse Bertha”, i mortai Ŝkoda, i 32 cm molto precisi e il “Santa Barbara” da 38,1 cm che, dalla sua postazione a Millegrobe, in 4 settimane smantellò letteralmente la copertura del Verena.

Un proiettile di questo gigantesco cannone penetrò, attraverso una cupola danneggiata, all’interno del forte italiano, distruggendolo completamente. Nel frattempo, questi colossi d’acciaio devastavano anche i forti Campolongo e Campomolon, ponendo le premesse della Strafexpedition del maggio 1916. Da Calceranica, un altro supercannone, il “San Giorgio”(35,1 cm), sparava a 30 km di distanza sull’abitato di Asiago proiettili da 750 chilogrammi.

La guerra dei forti si combattè anche nel settore di Folgaria e Lavarone, ma certamente con minore intensità e danni meno rilevanti. L’inverno, freddissimo, degli altipiani, poi, impose una stasi ad ogni operazione di un qualche rilievo. Oggi, molti di questi giganteschi forti corazzati sono visitabili e qualcuno possiede anche strutture museali: si tratta di escursioni di grandissimo interesse storico e paesaggistico, per le quali si allega un link con l’elenco dei principali siti fortificati, con le caratteristiche tecniche del manufatto.

http://www.magicoveneto.it/storia/fortezze.asp?xSezione=Altipiani

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