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Tenete d’occhio Anderson East Giovane promettente, ricorda il primo Springsteen

"Delilah" è il terzo lavoro del giovane Anderson East, un disco al fulmicotone che, assicura Brother Giober, rivela una capacità evidente, al di là del genere, di scrivere canzoni di qualità sopra la media, qualità interpretative proprie dei grandi del passato.

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** in fin dei conti, poteva essere peggio

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

 

 

ARTISTA: Anderson East

TITOLO: Delilah

GIUDIZIO: ****

Per giudicare un disco a volte non è necessario ascoltarlo. A volte mi capita di capire in anticipo della qualità di un lavoro da indizi che per me sono importanti. Per carità nulla di scientifico. A volte basta la foto di copertina.

Qualche giorno fa mi trovo di ritorno da Como. È fine settimana, le 4 del pomeriggio. Decido di concedermi una pausa: invece di tornare subito in ufficio decido di dirigermi verso Gallarate, meta Carù dischi. Mi piace ogni tanto andarci e fermarmi a parlare qualche minuto di questo o di quell’artista. Carù mi è simpatico e credo che dopo tanti anni faccia ancora questo mestiere con passione.

Non ci consociamo ma quando mi vede ormai si sofferma a dialogare con me di musica: è rilassante e, per me, gratificante.

In realtà l’altro girono ci sono stato  per due motivi: il primo per congratularmi del fatto che il suo negozio sia stato inserito tra i dieci migliori al mondo e il secondo perché sul suo sito ho visto, tra le nuove uscite, un disco live di Ry Cooder, periodo anni ’80 che so che non troverò in altri negozi se non il suo.

Ma Carù non c’è e neppure il disco di Cooder: esaurito.

Il commesso mi consiglia qualcos’altro: compro un Lyle Lovett dal vivo d’annata, ancora un disco dal vivo dei Little Feat e l’ultimo di Joe Ely.

Prima di uscire l’occhio si posa sulla copertina di un disco di un artista mai sentito prima: Anderson East. Mi incuriosisce: i tratti del viso mi ricordano di un mio peccato musicale di gioventù: Robert Palmer. Chiedo al commesso di chi si tratti: mi risponde “dicono sia il nuovo Van Morrison”.

Detto e preso, al volo.

Naturalmente in auto quel giorno non lo ascolto, meglio la pigra opzione di canzoni che conosco già a memoria e quindi sento i Little Feat. Il giorno dopo sono da Dentico (è sabato pomeriggio, perché non pensiate che passi la mia vita nei negozi di dischi). Il titolare, che se ne intende, mi confida: “Questa settimana è uscito poco, ma la prossima dicono di uno nuovo che assomiglia a Springsteen, tale Anderson East”.

Abbozzo un cenno di assenso senza avere il coraggio di dirgli che l’ho tradito avendo già comprato il titolo da un concorrente.

Torno indietro di alcuni anni, al 1973 o giù di lì. Mia sorella è di ritorno da Parigi, le ho chiesto di comprarmi un disco live di Janis Joplin, a Bergamo introvabile. Mi porta quello di un altro artista, la copertina mi colpisce, come il viso dell’artista colto in primo piano, pensieroso. Mi dice: “Ne parlano come il nuovo Dylan”. In realtà si tratta di Bruce Springsteen e il disco era il secondo, The Wild, The Innocent and The E Street Shuffle.

Capisco, ricollegando i fatti, che la storia si ripete dopo circa 40 anni: allora vado a casa e metto sul piatto Anderson East e… rimango colpito, anzi entusiasta dall’ascolto.

Anderson East ha 27 anni ed è al terzo album. I primi due non hanno venduto nulla o quasi, per questo non azzardo previsioni ma a me sembra bellissimo. Di Van Morrison francamente c’è poco, mentre invece qualcosa del Boss si, anche, se a me pare, di Southside Johnny e del primo John Mellencamp, quando ancora si faceva chiamare Cougar.

Nulla di nuovo, sia chiaro, le sonorità stanno lì a meta tra il soul, il rhythm ‘n’ blues e il rock, con un grande dispiego di fiati a far da cornice al tutto. Ma le canzoni sono belle, tutte. A volte è il ritmo a farla da padrone come in Find ‘em, Fool ‘em, Forget ‘em dove la chitarra è quasi funky, altre volte il riferimento ai suoni della Stax è sin troppo palese come in Satisfy Me.

Ma ogni traccia, benché sia evidente che ci si trovi di fronte a una musica che ha radici lontane nel tempo, è fresca, nuova, anche per il modo quasi sfrontato di Anderson East di cantare, tanto da poterlo facilmente scambiare per un cantante di colore.

Frequenti sono i richiami a certe sonorità fine anni ’50 : Only You, e forse il titolo non è casuale, ha un suono che sarebbe stato perfetto per qualche gruppo vocale di quegli anni, e nella colonna sonora di American Graffiti sarebbe stata perfetta.

Poi ci sono i capolavori, quelle canzoni in cui Anderson East, eccelle sia nell’interpretazione che nella composizione e trattasi per la maggior parte di ballate, intrise di romanticismo, epiche. Sono i momenti in cui lo spirito del Boss si evidenzia più che altrove: ascoltate allora What a Woman Wants to Hear (bellissimo titolo), splendida ballata che ricorda anche alcune delle migliori cose del primo Mellencamp, oppure Devil in Me con la sua bellissima melodia e ancora All I’ll never Need e le sue cadenze che all’inizio ricordano il blues di New Orleans, poi Sam Cooke e infine qualche decina di successi del passato della Motown.

Vi è poi spazio per il rhythm ‘n’ blues ed è qui che l’accostamento con Southside Johnny non mi sembra per nulla sconsiderato: così è Quit You, con il suo ritmo, la sezione fiati debordante e il piano elettrico in bella evidenza, oppure Satisfy me, il suo facile ritornello e quel giro di basso che in qualche modo ricorda My Girl ed ancora Lonely che nell’introduzione riporta alla mente Otis Redding e poi, nel suo sviluppo, alcune delle migliori cose di Billy Vera, un misconosciuto artista che negli anni ‘70/80 che, contro ogni moda allora imperante, sfornava dischi soul di indubbio valore.

Anderson East è un artista giovane che promette moltissimo e benché la sua musica non abbia nulla di nuovo, anzi si rivolga decisamente al passato, presenta dei tratti che lo distinguono: una capacità evidente, al di là del genere, di scrivere canzoni di qualità sopra la media, qualità interpretative proprie dei grandi del passato e, probabilmente, anche l’appoggio della casa discografica visto che, per questo disco, ha potuto avere al fianco Dave Cobb, un produttore con i fiocchi e tra i più richiesti del momento.

Delilah è un (quasi) esordio al fulmicotone, per certi versi paragonabile a Greetings… (anche se il Boss già allora mostrava un taglio più personale nella scrittura) e a American Fool di Mellencamp. Non so se ripercorrerà la stessa strada dei due artisti citati, difficile, per ora teniamoci stretti questo lavoro.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: What a Woman Wants to Hear

Se non ti basta ascolta anche:

John Cougar – American Fool

Billy Vera – Out of the Darkness

Southside Johnny and the Asbury Jukes – From Southside to the Tyneside

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