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L'intervista

Paleari come il prof Keating: Non sarò un barone, i giorni migliori sono davanti a noi video

Stefano Paleari, 50 anni, magnifico rettore dell'Università di Bergamo per sei anni, si appresta a lasciare l'incarico al termine del suo mandato. Il più giovane rettore d'Italia, quando venne eletto aveva solamente 44 anni, non diventerà mai il barone di quel sistema.

John Keating è il professore protagonista del film “L’attimo fuggente” interpretato magistralmente da Robin Williams. Un personaggio immaginario? Non proprio.

Dopo un’ora abbondante con il rettore Stefano Paleari non puoi che paragonarlo a uno così: intuitivo, pieno di passione e con uno sguardo sul futuro che sembra spalancarti sempre un orizzonte, una possibilità, un’occasione.

Ha cinquant’anni, compiuti lo scorso 24 gennaio, e il prossimo 30 settembre lascia l’incarico di Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Bergamo dopo averla guidata per sei anni (e di conseguenza la leadership della Crui, la Conferenza dei rettori d’Italia). Così vuole la Legge, e così farà.

“Ci sarebbe l’opportunità di svolgere un secondo mandato, inoltrando la richiesta al Ministero – confida – ma sarebbe uno strappo alla regola. E io sono convito che le regole vadano sempre rispettate senza strappi”.

Insomma, il più giovane rettore d’Italia – quando venne eletto aveva solamente 44 anni – non finirà la carriera da barone. Nel corso dell’incontro citerà più volte la moglie Fabiola, sottintendendo il grande ruolo che riveste nella sua vita, e non guarderà mai l’orologio perché non lo porta al polso, pur essendo un uomo che dà molta importanza al tempo. L’orologio, un regalo della moglie per i 40 anni s’è perso in un trasloco. Ed è convinto che lo ritroverà prima o poi. 

E allora dal primo ottobre che cosa farà?

“Non lo so. C’è anche il bello dell’incertezza nella vita”.

Il bello?

“Sì. Io mi sono laureato nel 1990 in ingegneria nucleare. Quattro anni esatti dopo il disastro alla centrale di Chernobyl e quando l’Italia aveva deciso di abbandonare il nucleare. Eppure, grazie all’incertezza di quegli anni ho trovato altre strade”.

Le piacerebbe fare il ministro? Il sindaco di Milano?

“Ho sempre pensato che i contenuti precedono le persone e gli incarichi”.

La pensava così anche sei anni fa quando decise di candidarsi a rettore?

“Ho deciso di fare il rettore perché avvertivo da ricercatore che l’università si trovava di fronte ad un periodo complesso. Stava cambiando il modello organizzativo e l’università aveva bisogno di energia e cambiamento che probabilmente solo una persona molto giovane poteva accettare. Così mi sono candidato. E dopo di me ci sono stati altri rettori giovani”.

Voleva cambiare l’università?

“Una delle pecche del sistema Italia, a differenza degli altri Paesi del mondo, è che chi arriva pensa a cancellare quello che trova. Invece, secondo me, si può pensare di costruire e non distruggere. Io ho accolto il tanto di buono che c’era, ho riflettuto sui punti di debolezza e ho cercato di far sì che potessero diventare punti di forza. La fase precedente alla mia in università, era caratterizzata da un forte dirigismo che era necessario. Il rettore precedente andava più in solitaria. Quelli erano gli anni che si poteva e si doveva fare così. Se avessi anch’io battuto in solitaria il mio mandato sarebbe stato penalizzante per tutto l’ateneo”.

Invece, lei che ha fatto?

“Ho preferito la camminata corale, la squadra. La forza di un’iniziativa è la forza del gruppo. Il concetto di squadra è a cerchi concentrici. Ho esaltato molto in positivo la figura dei prorettori, anche perché non ero in grado di seguire tutto in dettaglio. E poi ho fatto gruppo anche con il sistema territoriale. Nessuno può rinchiudersi in una torre d’avorio, tanto meno un’università che è un avamposto, un’ambasciata della cultura”.

Che cosa ha trovato? Da dove partiva?

“Nelle istituzioni, come nella vita familiare, quando ricevi un’eredità parti da lì. Non rifiuti l’eredità. C’è il buono, c’è il cattivo. Una famiglia che lascia ai figli dei valori, vale più di un immobile. Ho costruito sopra quello che ho trovato. Non si deve dimenticare che ci troviamo di fronte ad un’organizzazione che è cambiata radicalmente. E chi verrà dopo di me, partirà da quello che trova, ma non immagina che cosa lascerà dopo sei anni”.

Allora facciamo un passo indietro. Che cosa trovò?

“Nel 2001 il nostro ateneo aveva seimila studenti, ora sono più del doppio”.

C’era e c’è bisogno di un campus universitario…

“Quando passi da ottomila a sedicimila studenti hai bisogno subito degli spazi, non di aspettare protocolli, firme. Sei anni fa noi avevamo il 20% di studenti immatricolati non residenti nella provincia di Bergamo. Quest’anno il dato ultimo è che abbiamo il 43% di matricole non residenti nella provincia di Bergamo. Il 5% non residenti in Lombardia. Mille studenti stranieri su 16 mila. Sei anni fa chi si iscriveva alle lauree magistrali erano 92 studenti su 100, la gran parte era coloro che avevano svolto qui il triennio precedente. Quest’anno abbiamo uno studente su tre che non ha fatto la triennale da noi. Da qui al 2020 raggiungeremo a un terzo”.

L’università non ha i mezzi, ma poi avete siglato un accordo per ristrutturare la Montelungo per ricavare delle residente universitarie. Come si spiega questo investimento. Non era meglio avere un campus unico?

“La politica delle infrastrutture che abbiamo seguito è in continuità con quello che era stato fatto prima di noi. Non dobbiamo mettere in discussione le politiche degli investimenti. Ci siamo mossi in tre direzioni: costruire sul recupero, comunicando che abbiamo tre campus e non uno: quello di ingegneria, economia e giurisprudenza. L’area umanistica era un po’ più dispersa. Continuare a costruire tre campus sul recupero. Non abbiamo costruito nulla sulla zona verde, non abbiamo consumato suolo. È questa la nostra storia, ed anche nell’aspetto infrastrutturale si è rivelata sostenibile".

Un’università a impatto zero e poi?

“Seconda filosofia: vogliamo che l’università trasmetta valori educativi, tra cui anche i parametri green. Come i pannelli fotovoltaici sul campus economico e giuridico di via Caniana, non dimentichiamoci che prima c’era l’eternit. Abbiamo usufruito dei benefici fiscali per rimuovere l’eternit e poi dei contributi per l’installazione di pannelli fotovoltaici. Il collegio Baroni in via San Tomaso sarà in categoria A, infine dal 2011 abbiamo il teleriscaldamento. Sempre su questo fronte green, per la mobilità, abbiamo agevolato economicamente studenti e docenti con una convenzione con Atb. E ora stiamo lavorando per ottenere gli stessi benefici da una convenzione con Trenord”.

E la Montelungo?

“In questi anni abbiamo risparmiato e accantonato 20 milioni di euro per i servizi abitativi. Quando uno è all’inizio del suo mandato deve rischiare scelte impopolari, ed io avevo alzato le rette per poter ridurre il debito da trenta milioni a dieci. Questa operazione ci ha permesso di fare un investimento in infrastrutture e servizi. Sant’Agostino stiamo ultimando i lavori e poi inizieremo a riportare il chiostro grande alla sua originaria bellezza, mettendo di nuovo un prato e non la ghiaia. Poi sistemeremo le casermette e in futuro anche il chiostro piccolo. La sede di via Pignolo sarà presto pronta, e così dalla Montelungo sarà facile raggiungere entrambi i campus, sia quello di Sant’Agostino che di via Caniana”.

Un ingegnere nucleare che fa il rettore nel ruolo di imprenditore?

“No. In questi sei anni ho approfittato per studiare. Studiare anche l’università stessa. Uno dei problemi dell’università in Italia e in Europa è che oggi in alcuni Paesi i professori girano poco. Più del 90% dei professori spagnoli insegna dove si è laureato. Dobbiamo ritornare ai clerici vagantes”.

Aspetti, chi sono i clerici vagantes?

“Le università nascono nel Medioevo e gli studenti che volevano spostarsi in tutta Europa per seguire le lezioni dei più grandi maestri e dottori venivano definiti chierici, uno status che permetteva loro di godere di alcuni privilegi monastici e soprattutto di spostarsi con sicurezza. Erano detti vagantes proprio perché viaggiavano da un’università all’altra”.

Abbiamo bisogno ancora oggi di clerici vagantes?

“Dobbiamo favorire la circolazione dei docenti. Io penso che dai 30 ai 50 anni un professore deve circolare. Io ho tratto molto beneficio nel fare una parte della mia carriera dove non mi sono laureato. Per ricostruire le basi del futuro dell’Europa dobbiamo far tornare ad essere le università dei fulcri di cultura. Le università sono le vere ambasciate culturali di un Paese”.

Ed invece non lo sono?

“L’università del futuro è diversa da un ente locale. I professori dovrebbero avere uno stato giuridico più flessibile. Invece, un docente viene trattato come un comparto della pubblica amministrazione. E questo è limitativo. La mobilità degli studenti è aumentata drammaticamente. Per alcune università è stata una buona notizia. Per altre una cattiva: alcune università hanno perso il 20% degli iscritti. Dobbiamo essere aperti internazionalmente. Noi abbiamo qui 100 professori stranieri, ma non siamo facilitati facendo questo. Da un certo punto di vista, sono di fatto dei clandestini”.

Come ha fatto a rendere accattivante Bergamo a questi professori stranieri?

“Ho presentato l’università e la città. La prima volta avevo qualche timore. Poi sono stati loro a chiedere di venire qui. Gli vendo una città a misura d’uomo, tollerante, vicina a tante belle città. In più gli vendo un’università migliore di quella che si aspettano. Insomma, ho venduto il sistema Italia: è questo che importante”.

Confrontando con altri sistemi universitari, come giudica quello italiano?

“È bene sapere che gli studenti italiani versano in tasse circa 2 miliardi di euro, gli studenti inglese 18 miliardi in più. Ogni studente in Gran Bretagna versa quasi 10 mila euro all’anno in più dei nostri. È bene saperlo, perché quando un opinionista o un politico afferma. ‘Vogliamo fare come là?, deve essere cosciente di cosa vuol dire. L’università gratuita è sbagliata, quella che costa come negli Stati Uniti non è sostenibile. Il modello italiano ha tante pecche, ma ha tanti pregi. Sono convinto che il diritto allo studio deve essere sostenuto. Quando parliamo di laureati, e l’Italia ha un numero inferiore di laureati rispetto al resto d’Europa, dobbiamo essere coscienti che quando escludiamo, quando lasciamo fuori dall’università queste persone noi stiamo facendo un danno al Paese. L’Italia ha un bisogno straordinario di conoscenza. Se vogliamo competere dobbiamo investire e sapere che la nostra università costa un terzo rispetto a quella del Regno Unito”.

I nostri laureati sono ancora ambiti all’estero?

“Ho più testimonianze e conferme su questo fronte. Ero negli Stati Uniti e sono andato a Boston a trovare cinque nostri studenti che erano là, beh ho ricevuto elogi da tutto il collegio accademico. Una professoressa mi ha detto che gli studenti italiani sono i migliori. Le ho risposto che ogni studente americano dovrebbe fare sei mesi in Italia, se riesce a resistere e ad avere pazienza in Italia può farcela ovunque”.

Da due anni, dall’aprile 2013, lei è membro del board dell’EUA European University Association che riunisce più di 850 rettori degli atenei di 47 Stati. Com’è questa esperienza?

“Ho cercato di portare alcuni temi che l’Europa si sta ponendo. Cosa è un’università? Le università telematiche sono università? Le business school sono uguali a quelle di medicina? È possibile limitare questo concetto a un termine amministrativo? L’università è un diritto o un’opportunità? Gli americani o gli inglesi direbbero che è un’opportunità. Per noi è un diritto. C’è un bel confronto, un’esperienza che mi arricchisce sempre”.

Da osservatori così lontani come vede Bergamo?

“Bergamo è una città sta invecchiando. Calano i giovani che vivono qui. In questi anni ho studiato la storia di molte università. A Pavia l’università di medicina nasce proprio perché il signore feudale vuole far fronte alla peste che decima la sua città. Noi non abbiamo la peste, ma una difficoltà demografica. E in questa possiamo scorgere un’opportunità. Attirare studenti che trovino la città attraente non solo per lo studio ma anche per il lavoro, la famiglia”.

Bergamo non ha la facoltà di medicina, ma nel recente rapporto Ocse si fa riferimento alla possibilità della nostra università di collaborare con i grandi istituti ospedalieri di Milano. È possibile per lei?

“Credo che possiamo andare oltre. Ho dato mandato di studiare gli stili di vita dei nostri studenti. Dobbiamo dare insegnamenti educativi sul fumo, sull’alcol. Ho creato un centro in ateneo: l’human factor e poi l’ho messo al Kilometro Rosso. Ho raggruppato un gruppo di ricercatori, di ingegneri e di giuristi. Abbiamo vinto un bando ministeriale da 17 milioni di euro e da settembre attiviamo un corso innovativo: ingegneria delle tecnologia della salute, dove i medici andranno a insegnare agli ingegneri. È una sfida che sono sicuro vinceremo. Era così anche per i corsi in inglese. Sono stato coriaceo. I primi tre anni i corsi in inglese sono stati sostenuti solo da fondi esterni. Oggi sono una realtà che dà valore alla nostra università”.

Sempre nel recente rapporto Ocse si chiede di creare una piattaforma di regia con tutti gli enti pubblici e privati. Non le piacerebbe essere al comando quando non sarà più rettore?

“L’Università fa già squadra con tantissimi soggetti del territorio. Il mondo è cambiato e continua a cambiare, fare squadra, fare sistema è necessario per la sopravvivenza stessa delle istituzioni. Io ho già un lavoro che devo fare e tutti sanno che sono una persona molto concreta, uno che odia i tavoli. E poi un tavolo per fare che cosa? Prima ci deve essere un obiettivo. Secondo me questo territorio ha straordinarie potenzialità. Sono convinto: i giorni migliori sono davanti a noi, per l’università e per la città”.

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