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L’ultimo Steven Wilson si candida al “The wall” della Facebook generation

Il nostro Maurizio Luraghi vorrebbe già decretare "Hand.Cannot.Erase" di Steven Wilson, ritenuto da molti un guru, a disco migliore del 2015: sarà così?

Natale del 2003: Joyce Carol Vincent, un’attraente quarantenne, single ma con molti amici e parenti, molto presente sui social network, nella solitudine del suo appartamento londinese prepara pacchetti regali.

Tre anni dopo, nel 2006, la donna viene ritrovata in quello stesso appartamento, circondata da quegli stessi pacchetti regalo: era morta da tre anni, e durante questo lungo lasso di tempo nessuno l’aveva cercata.

Di quella tragica messinscena natalizia, non rimangono oggi che reperti di interesse meramente medico-legale.

E un disco, questo magnifico HAND.CANNOT.ERASE., ultimo lavoro di Steven Wilson, icona del progressive moderno, musicista, compositore e produttore (Opeth, Marillion, Anathema, Fish), leader e membro fondatore di gruppi quali Porcupine Tree, No-Man, Blackfield, Storm Corrosion e da alcuni anni ormai concentrato sulla sua carriera da solista (per non parlare della sua intensa attività di "recupero" digitale dei grandi capolavori del progressive anni ’70, King Crimson, Jethro Tull e Yes in particolare).

In questo disco (il quarto da solista in studio), Steven è accompagnato dalla solita eccellente band del precedente “The Raven That Refused To Sing”: il virtuoso Guthrie Govan alle chitarre (insieme allo stesso Wilson, ottimo chitarrista), Nick Beggs al basso, Marco Minnemann alla batteria, Theo Travis ai fiati ed Adam Holzman alle tastiere.

Numerosi i richiami ai grandi gruppi prog degli anni Settanta, la cui lezione viene assimilata da Wilson e riproposta senza timori reverenziali, ma con originalità e personalità.

L’album, registrato nel 2014 negli Air Studio di Londra, è caratterizzato, oltre che da una registrazione allo stato dell’arte (non a caso Wilson è assai apprezzato dagli audiofili), da un alto livello di maturità compositiva ed esecutiva: non ci sono brani "cuscinetto", messi lì tanto per riempire.

Se poi avete la fortuna di possedere un lettore blu-ray collegato al vostro impianto audio, potrete ascoltare l’intero lavoro seguendo sullo schermo lo scorrere di bellissime immagini e fotografie che ripercorrono la storia di Joyce Carol.

In questa capacità formidabile di abbinare media diversi sta anche la peculiarità di questo artista, da molti considerato un vero e proprio guru (anche se altri lo considerano semplicemente un nerd occhialuto rimasto attaccato ai fasti musicali degli anni passati): il quotidiano inglese “The Guardian” lo ha definito “the definitive cult rock star”, mentre per la rivista “Record Collector” Wilson “is a contemporary genius”.

Il disco – uso ancora questo termine per molti obsoleto, perché mai come in questo caso il supporto fisico assume un’importanza fondamentale, sia esso il "semplice" Cd o il più sofisticato Blu-Ray (molto bella la versione multicanale 5.1) o ancora il caro e vecchio vinile – parte alla grande con una intro, "First Regret", caratterizzata da una bella melodia eseguita al pianoforte su un tappeto di synth, dal caldo sapore analogico, che sfocia senza soluzione di continuità nella lunga "3 Year Older": chitarre acustiche ed elettriche a sorreggere ritmicamente il bel tema iniziale, brevi intermezzi solistici di basso e chitarra ed un chorus ben armonizzato nella sezione cantata, fanno di questo brano uno dei migliori dell’intero album.

"Hand Cannot Erase", il terzo brano di questo "concept", potrebbe benissimo candidarsi a "singolo" di punta dell’album, per la sua struttura semplice composta da verse e chorus di notevole impatto: un bel brano rock, poco progressivo, da sentire ad alto volume magari in auto con i finestrini abbassati…

"Perfect Life" colpisce per l’alternanza tra l’ipnotica introduzione, con la bella voce parlata di Katherine Jenkins sorretta da una base ritmica che richiama i migliori Massive Attack, e il finale cantato da Wilson su una armonia caratterizzata dal sapiente inserimento di un accordo di Sol Major 7 e dalla progressiva stratificazione di più parti di chitarra acustica ed elettrica, in un crescendo molto coinvolgente: altro "highlight" del disco, che ci spinge ad andare oltre nell’ascolto (cosa che, almeno a me, di questi tempi succede sempre più raramente).

“Routine” è una prog ballad con belle chitarre acustiche in stile Genesis. Introdotta da un breve break di piano, da 5:48 a 7:25 si sviluppa la potente sezione centrale, con il tema cantato dalla brava Ninet Tayeb e sorretto da chitarre distorte e archi, che lascia il posto ad un finale caratterizzato da begli arpeggi di chitarra, anche qui con il ricorso ad accordi di settima maggiore, dolcemente appoggiati su un tappeto di mellotron.

“Home Invasion” si presenta con chitarre dure, quasi prog metal, e un bel piano elettrico. Grande spazio al virtuosismo del chitarrista Govan. Il pezzo più duro dell’album, non senza un paio di bridge ariosi che con la loro lievità fanno meglio risaltare la parte hard del brano. Echi dei King Crimson elettrici (Lark’s, Red, Starless).

Un assolo di chitarra slide prelude senza interruzioni alla successiva “Regret #9”, che parte con un grande solo di synth (sembrerebbe un minimoog) e prosegue con un altrettanto grande solo di chitarra elettrica: una bella occasione per dimostrare la bravura del tastierista Holzman e di Govan, maestri dei rispettivi strumenti, molto attenti a non cadere nella trappola del virtuosismo fine a se stesso.

Un eccentrico finale di banjo di Wilson lascia spazio alle chitarre acustiche della breve ma intensa “Transience”, con belle armonie vocali ed un solido basso synth.

“Ancestral”, lungo brano introdotto da intervalli dissonanti di chitarra, stupisce per l’uso del flauto e per una melodia a tratti inquietante. La parte centrale è un crescendo orchestrale che culmina con un altro fulminante assolo di Govan. Finale ancora al limite del prog metal (ma capiamoci, qui siamo su un altro pianeta…), che in alcune parti richiama il primo fondamentale album dei King Crimson.

Un accordo sospeso e si passa a “Happy Returns”, che riprende il tema dell’iniziale “First Regret”, trasformandosi poi in un’autonoma ballad con piano e chitarra acustica in bella evidenza. Un brano semplice ma suonato con la solita maestria, che culmina in un finale da pelle d’oca con assoli di chitarra di Govan e dello stesso Wilson, che qui conferma di essere oltretutto un ottimo chitarrista.

La conclusiva “Ascendant Here On…” riprende l’armonia di “Perfect Life”, senza però la parte cantata e la ritmica: un coro angelico accompagnato da pochi accordi di pianoforte pone fine a questo ottimo “concept album”, che una rivista tedesca del settore ha definito come il "The Wall" della Facebook Generation e che si candida (nella mia modesta opinione) a miglior album rock del 2015 (anche se forse è un po’ presto per parlarne…).

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