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La recensione

“Io, killer mancato” Viviano, cronista ma… poteva essere mafioso

Le pagine scritte da Viviano, oggi grande penna di Repubblica, nel suo libro "Io, killer mancato", edito da Chiarelettere, sono la testimonianza che nulla nella vita è predestinato. Viviano, grazie all'amore e all'esempio unico della madre Enza, testimonia con la propria vita, che scegliere e cambiare il destino si può.

Titolo: Io, killer mancato

Autore: Francesco Viviano

Editore: Chiarelettere, collana Reverse

Pag: 143

Costo: 14,00 euro

Francesco Viviano, penna di talento del giornale nazionale "la Repubblica", oggi lo conosciamo tutti come fine segugio e giornalista d’inchiesta vecchio stile. Di quelli che seguono le piste, ne tracciano le linee fino al raggiungimento dell’obiettivo.  Scoop, cronache, interviste con personaggi legati in diverso modo con la malavita siciliana e internazionale, un curriculum da far sbiancare d’invidia qualsiasi collega, sopratutto giovane. Un esempio, per chi è nel settore. Ma se tutto questo già lo sapevamo, perchè attenti lettori, quello che ci mancava era scoprire il Viviano versione intimista. Per farlo è bastato affidarsi nuovamente alla sua penna e leggere il suo romanzo, che è una sorta di autobiografia.

Palermitano doc, Viviano nasce da una famiglia con poche risorse economiche. La sua infanzia e giovinezza la trascorre tra due quartieri popolari del capoluogo siciliano: Albergheria e Villaggio Ruffini. Di ghiotte occasioni a portata di mano per diventare un "Viviano versione uomo d’onore" ne ha avute. Molti suoi amici non ebbero la forza, oppure la fortuna di cambiare il corso del loro destino. O forse, mi vien da dire, non ebbero la fortuna di avere come madre la Signora Enza. Certamente a lei, come per stessa ammissione dell’autore, Viviano deve molto. Deve sicuramente la libertà di essere ciò che è (… pensai a mia madre, …, era anche merito suo se non sono diventato un uomo d’onore..).

Sin dal titolo si capisce che la storia è incentrata su quello spaccato di Sicilia legato all’ancestrale connivenza sociale con Cosa nostra. Viviano non divenne uno di loro, non macchiò la sua anima con il sangue di un altro uomo, quello del Signor Puccio, anche se il desiderio di un giovane diciassettenne di vendicare la morte del proprio padre era tanto forte quanto difficile da ignorare. A trattenerlo, fu lo sguardo di un bambino, ancora infante, che stava tra le braccia dell’omicida del padre. Quell’attimo bastò per capire che rendere orfano un altro figlio non avrebbe riportato in vita il padre mai conosciuto.

Della Signora Enza, la prima, a mio modesto ma insindacabile parere, esempio di coraggio, forza, autodeterminazione soprattutto simbolo della lotta alla mafia, si assaporano qua e là delle descrizioni incantevoli. Sfortunata, sin dall’infanzia, ma con la caparbietà del bene e del giusto ha condotto per mano il figlio lungo la strada dell’uomo libero. La sua figura meriterebbe un grande encomio, senza ovviamente nulla togliere alle attitudini personali dell’autore.

La carriera di Viviano è quella vecchio stile. Fatta di gavetta e di piccoli passi, senza bruciare tappe ma soprattutto sudata e meritata. Da semplice fattorino dell’Ansa, a collaboratore di testate locali fino a giornalista di uno dei quotidiani nazionali più letti: La Repubblica. (o come diceva la sig.ra Enza, "mio figlio inviato della Repubbrica"). La sua crescita professionale, come ricorda nel libro, va di pari passo con gli episodi più sanguinosi della Sicilia, tanto che lui stesso scrive (pag. 97) "in Iraq e in Afganistan, in mezzo alle bombe e agli attentati dei talebani, non ho mai avuto paura come a Palermo nel ventennio compreso tra la seconda guerra di mafia e le stragi dei primi anni Novanta".

Questo libro ha un valore sociale, già racchiuso nel titolo. Essere un killer mancato si può. La vita di Viviano, che tutto è stata fuorchè facile, deve essere testimonianza ed esempio per i giovani dei quartieri "difficili" di Palermo. Lui stesso ci racconta, "quando sentivo qualcuno dire che la predisposizione alla delinquenza era genetica mi veniva da strangolarlo. Io ero figlio di un ladro ammazzato a 22 anni, che andava a rubare per sfamare me e mia madre. Ero cresciuto all’Albergheria e al Villaggio Ruffini, dove molti erano costretti a infrangere la legge per sbarcare il lunario o perchè non avevano lavoro, ma nel mio dna non c’era scritto ‘rapinatore’, ‘killer’, ‘mafioso’. Non volevo imboccare nessuna di quelle strade. Ma non era facile. Ogni giorno era una guerra. Mi chiedevo che cazzo di futuro avrei potuto avere in quell’ambiente". (pag 42/43)

Il giovane Francesco Viviano allora non sapeva nulla del suo futuro. Ma decise che la sua strada doveva essere diversa. E cosi fu. E per farlo dovette lottare contro i meccanismi della legge della strada. 

Parafrasando una frase della signora Enza, che era solita dedicare al figlio, non lasciate che questa testimonianza di vita sia la sola. Credete, vivete per essere signori della libertà e non "uomini d’onore".

 

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