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La sentenza

“Non è reato urinare sul portone di un’abitazione”: scagionato un bergamasco

Una sentenza della Corte di cassazione nei giorni scorsi ha scagionato un bergamasco, C.G.F., che aveva urinato all'ingresso di un'abitazione in città.

Non è reato urinare sul portone di una casa. E’ quanto emerge da una sentenza della Corte di cassazione che nei giorni scorsi ha scagionato un bergamasco, C.G.F., che aveva fatto i propri bisogni fisici all’ingresso di un’abitazione in città.

Il reato sul quale si basava la denuncia del proprietario della casa, R.F.M., è legato all’articolo 726 del codice penale, vale a dire atti contrari alla pubblica decenza, turpiloquio: chiunque, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da dieci euro a duecentosei euro.

Dopo aver esaminato il caso, la cassazione di Brescia ha emesso una sentenza destinata a far discutere:

Ritenuto in fatto che iI giudice di pace di Bergamo, con sentenza del 9 maggio 2013, ha assolto, per non aver commesso il fatto, C.G.F., imputato del reato di cui all’art. 726 cod. pen., per avere compiuto atti contrari alla pubblica decenza, consistenti nell’avere orinato vicino all’ingresso della abitazione di tale R. F.M. sita in Bergamo.

La sentenza assolutoria era motivata attraverso il richiamo della testimonianza di tale C.G., alla luce della quale, sostiene il giudicante, emergerebbe che, stanti le sue modalità, il fatto non costituirebbe reato, e di tale B.N., verosimilmente appartenente alle forze dell’ordine, il quale ha dichiarato di essere stato mandato sul posto dalla centrale operativa e di avere riscontrato che era in corso una lite fra il C. ed il R.F..

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Corte di appello di Brescia, il quale ha dedotto la manifesta illogicità della sentenza per non avere il Giudice di pace tenuto conto dei fatto che lo stesso C. nel verbale di querela orale da lui sporta, peraltro in data imprecisata, avrebbe ammesso i fatti nella loro materialità.

Peraltro, aggiunge il ricorrente, la sentenza, in modo contraddittorio, dapprima sembra avvalorare una formula assolutoria per assenza dell’elemento soggettivo, salvo poi, in dispositivo, propendere per la formula del “non aver commesso il fatto”.

Considerato in diritto il ricorso, risultato infondato non è, pertanto, meritevole di accoglimento. Osserva il Collegio, in linea di principio, che per giurisprudenza pacifica di questa Corte “sono atti contrari alla pubblica decenza tutti quelli che in spregio ai criteri di convivenza e di decoro che debbono essere osservati nei rapporti tra i consociati, provocano in questi ultimi disgusto o disapprovazione come l’urinare in luogo pubblico.

Né la norma dell’art. 726 cod. pen., esige che l’atto abbia effettivamente offeso in qualcuno la pubblica decenza e neppure che sia stato percepito da alcuno, quando si sia verificata la condizione di luogo, cioè la possibilità che qualcuno potesse percepire l’atto”.

Il reato in questione poi si differenzia da quello di cui all’art. 527 cod. pen., in quanto la distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave il pudore sessuale, suscitando nell’osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono in via esclusiva il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione.

Ciò posto osserva il Collegio che, secondo quanto risulta dal tenore della impugnazione proposta dal PG, questi si duole dei fatto che il Giudice di pace, dopo avere affermato che, alla luce delle risultanze istruttorie e della documentazione acquisita, era emerso che, tenuto conto delle modalità dell’accadimento, il fatto non costituiva reato, abbia poi provveduto ad assolvere l’imputato per non aver commesso il fatto.

Invero, rileva la Corte, al netto di una certa imprecisione terminologica di cui è sicuramente vittima l’estensore della sentenza impugnata, è ben chiaro che l’apparente antinomia fra motivazione e dispositivo della sentenza è risolvibile ritenendo che la formula utilizzata nel dispositivo (peraltro non riportata fedelmente nel suo ricorso neppure dal Pg), secondo la quale l’imputato deve essere mandato assolto dal reato di cui all’art. 726 cod. pen. “perché non lo ha commesso”, va intesa non, certamente, nel senso che il reato è stato commesso da altri, ma nel senso che la condotta del C. non integra gli estremi del reato, cioè, essa non costituisce reato, così come riportato in sentenza.

D’altra parte il riferimento alle modalità dell’accadimento presente nella sentenza offre più di un elemento per ritenere che il Giudice di pace di Bergamo abbia ritenuto carente dell’elemento soggettivo, anche con riferimento al profilo della sola colpa, la condotta (l’accadimento) pur realizzata dal C..

Deve, infine, rilevarsi che non vi è, per costante giurisprudenza di questa Corte, un apprezzabile interesse alla impugnazione della sentenza ad opera della parte pubblica-laddove la impugnazione abbia ad oggetto la erroneità della formula assolutoria adottata dal giudicante.

Deve, conclusivamente, rigettarsi il ricorso del Procuratore generale.

P.Q.M. Rigetta il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Brescia.

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