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Tra genio e follia

Il “serial painter” Oscar Giaconia confessa: “Dipingere è pericoloso” fotogallery

La pittura come pratica digestiva di altri linguaggi, il lavoro di Oscar Giaconia orbita intorno a molteplici costellazioni: i concetti di mostro, controfigura e autopsia sono solo alcune delle parole chiave che accompagnano da sempre la ricerca poliedrica dell'artista, caratterizzata anche dall'utilizzo di materiali inusuali quali teche di silicone, vulcanite, nylon, gomma di neoprene.

The Blank, il network culturale che dal 2010 riunisce gli operatori culturali pubblici e privati di Bergamo, intervista per Bergamonews una giovane generazione di artisti bergamaschi. Tra genio e follia, storie di passione, difficoltà, successi. Avvalendosi prevalentemente della tecnica pittorica, intesa come pratica digestiva di altri linguaggi, il lavoro di Oscar Giaconia (la biografia in fondo all’intervista) orbita intorno a molteplici costellazioni: i concetti di mostro, controfigura e autopsia sono solo alcune delle parole chiave (reversibili alle qualità trasformative del media pittorico) che accompagnano da sempre la ricerca poliedrica dell’artista, caratterizzata anche dall’utilizzo di materiali inusuali quali teche di silicone, vulcanite, nylon, gomma di neoprene.

The Blank: Cos’è lo “studio” per un artista?

Oscar Giaconia: E’ la prigione del proprio corpo. Il ventre caldo di una lenta incubazione, ricettacolo di tutte le proprie ossessioni e manie.

TB: Il suo studio è popolato da oggetti che non sembrano avere attinenza con la tecnica pittorica. Che utilizzo ne fa?

OG: Ogni oggetto nel mio studio è come il frammento di un antico tavoliere di cui non si conosce origine e funzione. E’ un sistema di utensili fuori uso dove gli oggetti di scena sono indispensabili alla messa in scena di un circuito più ampio. Saggio il corpo di un oggetto per risalirne il corso: cerco, verifico, smonto e disapprovo, così arrivo al punto che se le prove per confermare e quelle per smentire coincidono, riparto da capo, ed è come se un cane, o meglio, un serpente, si mordesse la coda.

TB: La pittura sembra in declino nella scena contemporanea. Ci parli del suo legame con questa tecnica.

OG: Penso sia in declino l’atteggiamento, non il linguaggio in sé, che incarna l’idea stessa dell’eterno ritorno. Non potendo fare pittura con la pittura, il mio legame con essa è altrove. Ho un rapporto di natura agonistica, ma nessuno sa come si comporti realmente la pittura: dipingere è pericoloso.

TB: Tutti i dispositivi e le scenografie che crea per poi tradurle nell’opera che fine fanno quando ha ultimato il lavoro?

OG: Ogni oggetto è come se giacesse in una sala d’attesa visiva, sottoposto poi ad un’operazione di filtro, una sorta di casting, da cui dipende la dinamica dentro-fuori. Tutti i “materiali di scena” sono gli organi mancanti di quella macchina pittorica che è il proprio corpo. Non abbiamo, ma siamo un corpo. E’ l’atto stesso del dipingere, dove un gesto ripetuto infinite volte diventa prossimo ad una lirica muscolare.

TB: Molti dei termini che usa sono desunti dal linguaggio cinematografico. In che termini il cinema ha influenzato la sua ricerca?

OG: Come per l’arte, ho l’urgenza che tutta un’idea di cinema preceda sempre un cinema delle idee. Cinema come la discarica di tutte le arti, serbatoio dove stipare le macerie di tutti gli altri linguaggi. Da esso mutuo concetti e pratiche che estendo simbioticamente alla pittura. L’idea di controfigura, sala d’attesa e casting, ad esempio, sono da intendere, rispettivamente, come doppio o supplente- fantasma, stadio di sospensione o stallo visivo, lutto e irrimediabilità di ogni atto decisionale.

TB: Citerebbe un film in particolare?

OG: Ho un forte senso d’affezione per tutta un’idea di cinema disfunzionale, un cinema che sostanzialmente cerca di sabotarsi, di “farsi fuori”. Shining di Stanley Kubrick, in particolare, è una scatola cinese di possibilità e duplicazioni da snidare. E’ questa visione de-genere di quel grande vuoto insito nell’uomo, che non spiega nulla, ma si dispiega a mo’ d’inondazione. Sicuramente c’è in Shining tutta una logica del dominare o controllare (l’Overlook Hotel richiama il verbo to overlook, sorvegliare) che è alla base del ciclo d’opere Meister.

TB: Jack Torrence-Jack Nicholson è protagonista di tutta una serie di lavori. Come mai si è concentrato su questo personaggio?

OG: Jack Torrence è una versione normalizzata di Jack lo Squartatore, un padre-mostro senza qualità. Tutte le sue azioni sono infatti ripetitive o imitative, è l’archetipo di un trickster giocherellone (“sono il lupo cattivooo!”), che annuncia che molte ripetizioni non solo sono già state ripetute, ma che altre ripetizioni sono ancora in atto.

TB: Pensa ci sia un nesso fra il crimine e l’arte?

OG: Ogni opera d’arte è un potenziale crimine mancato. Gli artisti, come i criminali, sono individualisti rituali, intrappolati in una coazione a ripetere senza soluzione di continuità. Al contempo l’artista può diventare il detective di quegli atti criminosi da lui stesso compiuti.

TB: Quindi l’artista potrebbe potenzialmente essere un serial killer?

OG: L’artista è un killer dell’immaginario. A differenza del criminale e dello psicopatico, di cui condivide il medesimo spazio senza confine, solo gli artisti possiedono la chiave di ritorno per fuoriuscire da quei mondi dentro cui, per vocazione, s’immettono.

TB: Molte delle sue opere sono abitate da elementi desunti dall’ambiente marino, in altre figurano invece luoghi montuosi. Si confronta sempre con delle polarità?

OG: Montagne e distese marine possono coincidere: le montagne sono in realtà il corrugamento dei fondali oceanici. E’ una questione che appartiene al linguaggio stesso che subisce continui stravolgimenti tettonici. Alcuni disegni, ad esempio, fanno danzare all’unisono e alla rovescia, quanto sembra incongruo e inconciliabile, implicando le nozze chimiche tra principio inorganico-minerale, (grafite-padre), e principio organico-vegetale (olio-madre).

TB: Tutti i suoi lavori sono contenuti dentro teche e cornici realizzate con materiali inusuali, nylon, gomma di neoprene, polietilene. Da cosa dipende questa scelta?

OG: Ogni cornice è la camera d’aria necessaria all’isolamento dell’immagine. L’utilizzo di materiali plastici richiamano spontaneamente processi sintetico-artificiali sempre in moto. Alludono alla capacità di trasmutazione dei polimeri. Da un solo campione d’olio, in base alla temperatura cui viene sottoposto, si possono ottenere sostanze differenti. Tuttavia l’atto fisiologico digestivo del dipingere mi conduce a liquidare ogni mera nominazione, procedendo oltremodo tra disarticolazioni, perforazioni, carotaggi, prelievi ed innesti, in un corpo a corpo perpetuo tra sostanze senza nome.

OSCAR GIACONIA – BIOGRAFIA

Oscar Giaconia nasce a Milano nel 1978. Dipinge, disegna, assembla nel suo studio di Bergamo, città che ha ospitato diverse mostre personali tra cui Alea, presso la galleria Thomas Brambilla, nel 2012, e collettive, come Fuori quadro Follia e creatività fra arte, cinema e archivio, Sala alla Porta Sant’Agostino; Ogni cosa a suo Tempo, capitolo VI (Resume and Rebirth), BACO Arte Contemporanea, Palazzo della Misericordia; ArteImpresa, Accademia Carrara. Le sue opere si trovano anche in numerose collezioni private e fanno parte delle collezioni permanenti di FRAC Champagne-Ardenne, Reims (Francia) e BACO Arte Contemporanea, Bergamo.

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