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Il post 11 settembre raccontato in una serie tv, l’imperdibile “Homeland”

Dopo cinque episodi decolla la quarta stagione di “Homeland – Caccia alla spia”, il thriller psicologico in onda sul canale satellitare FOX che mette in scena le nevrosi dell’Occidente dopo i terribili fatto del 2001.

di Ivan Leoni

Ci sono volute ben cinque puntate prima di veder decollare la quarta stagione di “Homeland – Caccia alla spia”, ma alla fine gli autori ce l’hanno fatta a dare ai milioni di aficionados una ragione per aspettare con ansia il prossimo episodio. E dire che si sta parlando di una delle serie tv più celebrate dell’ultimo decennio, che ha ottenuto – a ragion veduta – una pioggia di premi e riconoscimenti per autori, sceneggatiori e attori, protagonisti e non. Tutti meritati, tra l’altro. Perché per dirla con le parole del Los Angeles Time, "Homeland è la prima serie tv”, basata sulla fiction israeliana Hatufim, “che racconta una storia post 11 settembre che ha tutti gli elementi che un thriller psicologico dovrebbe avere: politicamente risonante, emotivamente straziante e avvincente da guardare". Non è tutto: la drammaticità di dialoghi e trama rivelano un coraggio e un talento autoriali fuori dal comune perché mettono a fuoco molto bene le paure e le nevrosi di un Occidente che con il crollo delle Twin Towers si è scoperto vulnerabile, spaventato, spietato, paranoico. Ma soprattutto senza scrupoli, disposto a patteggiare diritti e vite umane pur di conservare il ruolo egemonico consegnatogli dal Novecento nello scacchiere mondiale. Un simile scenario è davvero una sfida altissima per autori e sceneggatori. Che non fosse un compito facile lo si era capito già nel corso della terza stagione: la costruzione delle vicende ha subìto accelerazioni e decelarazioni improvvise; i personaggi hanno vissuto iperboliche evoluzioni psicologiche; iraniani ed esponenti dello Stato Islamico sono stati rappresentati in modo un po’ macchiettistico. Del resto, quando la fiction si avvicina così tanto all’attualità diventa impossibile utilizzare la cronaca come materiale narrativo, non c’è la sufficiente distanza per rielaborare il presente. Scivolate a parte, agli autori – attenzione allo spoiler – va comunque riconosciuto il grandissimo merito di aver fatto coraggiosamente uscire di scena nel finale della scorsa stagione Darmian Lewiss (nei panni del controverso personaggio di Nicholas Brody), che con Claire Danes (l’agente CIA Carrie Mathison) ha portato sulle proprie spalle trama e sottotrama dei primi 36 episodi.

Orfana di cotanto padre, in questa quarta stagione la serie ha pagato un inevitabile e più che comprensibile scotto perchè la sopravvissuta Carrie si trova a dover ricostruire i cocci di un equilibrio andato in frantumi in una piazza di Teheran, osservando il corpo dell’amato Brody penzolare impiccato dal braccio di una gru. Mica una banale scappatella. Oltretutto dopo che quest’ultimo si è eroicamente sacrificato per quella patria che ormai non potrà fare altro che vederlo come autore di una strage che non ha mai commesso. Non facile da rielabolare per la malcapitata Carrie Mathison, diciamocelo. E ancora meno facile sarà scrivere il seguito di un personaggio che definire complesso è riduttivo. Si perché, se ancora non bastasse, la neodirettrice CIA in Pakistan si porta sul groppone pure un serissimo disturbo bipolare della personalità. Condizione ulteriormente aggravata dagli eventi sintomi di una depressione post-partum, tanto che ci viene mostrata la scena in cui spinge la figlioletta sotto il pelo dell’acqua mentre le sta facendo il bagno, salvo poi rinsavire. Ecco, messa così, si ha l’impressione che gli autori si siano lasciati prendere un po’ la mano con il personaggio “Carrie”. Detto questo, senza dare troppe anticipazioni per chi ancora non avesse iniziato la visione della nuova stagione, il colpo di teatro impresso alla vicenda nel corso della sesta puntata (in onda venerdì alle 21.00 su Fox) rappresenta la svolta di cui si sentiva veramente il bisogno. Premiando anche i personaggi degli eccellenti Mandy Patinkin (nei panni del navigato Saul Berenson, ex direttore CIA) e Rupert Friend (il tormentato agente Peter Quinn) che acquisiscono ancor più centralità nella narrazione.

Homeland è da vedere, non c’è altro da aggiungere.

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