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Nine Below Zero “live” Energia anni Settanta che torna, a Bergamo

Il nostro Brother Giober "rimedia" a una dimenticanza omaggiando "Live At The Marquee", il primo disco dei Nine Below Zero, e annuncia che lui non mancherà al concerto della band per seguire la loro musica fatta di sudore, ritmo, vigore, sabato 22 novembre al Druso. Intanto martedì 28 ottobre sono attesi i Jefferson Starship.

Giudizio:

* Camera iperbarica

** indispensabili massicce dosi di vitamine ed esercizio fisico

*** necessario solo qualche ritocco di chirurgia estetica

**** in perfetta forma

***** Cocoon!

 

 

ARTISTA: Nine Below Zero

TITOLO: Live At The Marquee

GIUDIZIO: ****1/2

Ho commesso una grave dimenticanza, musicale. Il perché è presto detto: qualche settimana fa vi ho presentato la mia classifica dei 15 migliori “live” di sempre dimenticando questo “Live At The Marquee” dei Nine Below Zero, uno, per me, dei più belli di sempre.

Gli dedico quindi un intero articolo, di omaggio, approfittando anche del fatto che, udite! udite! i Nine Below Zero saranno a Bergamo, precisamente il 22 novembre al Druso.

I miei amici del Druso, garantendosi per una sera i NBZ hanno fatto l’impresa e se il rock e il blues sono i vostri territori musicali usuali, allora questo sarà uno di quei concerti cui non potrete mancare!

I Nine Below Zero si formano a Londra nel 1977 in piena esplosione punk, ma decidono, subito, di intraprendere una strada diversa e, ispirandosi principalmente al blues di Chicago, creano un impasto sonoro nel quale sono facilmente rintracciabili le influenze del soul, de rhythm ‘n’ blues, dello stesso punk, del boogie, del rock ‘n’ roll, tutti generi mischiati con il principale scopo di divertire e di divertirsi.

Sin dagli esordi è chiaro che la loro dimensione ideale sia quella live ed è così che i NBZ diventano immediatamente una delle attrazioni dal vivo con maggior seguito nella Londra di quegli anni.

I loro spettacoli sono dei veri e propri happening dove il pubblico è diretto protagonista. Il clima che si crea durante le performance è esattamente l’opposto di quello che potrebbe evocare il nome del gruppo: è caldo, festaiolo, ad alta gradazione alcolica.

Il loro pubblico, giovane, è per forza eterogeneo e pesca non solo tra gli amanti della musica di Chicago ma anche tra i seguaci delle mode musicali del periodo. Ai tempi, la leadership, nel genere musicale definito pub rock, se la giocavano con un altro grande gruppo, i Dr Feelgood, una band capace di alcuni lavori di grande pregio e che ancora faceva del palcoscenico il centro della propria espressione artistica.

I brani dei NBZ sono tirati al fulmicotone, i soli di chitarra a volte di grana (troppo) grossa, quelli di armonica lancinanti ma il tutto funziona a meraviglia e, soprattutto, diverte un sacco. È musica fatta di sudore, di ritmo, di vigore. Ballate o cose del genere, zero, o quasi, suoni acustici del tutto assenti.

Live at Marquee è, come detto, ovviamente dal vivo ed è, stranamente proprio perché dal vivo, il primo album dei Nine Below Zero.

Due sono i front man ai quali è affidato il compito di trascinare la folla: Dennis Greave, chitarrista certo capace e incline all’effetto speciale e Mark Feltham, armonicista dallo stile irruento e coinvolgente, i quali si alternano anche alla voce solista.

Come dicevo il disco è fatto tutto di brano velocissimi, con basso e batteria che vanno a mille, chitarra e armonica a stupire e canto spesso rabbioso, a squarciagola. Il pubblico ben presente, accompagna in sottofondo, ma non tanto, il cantante che di volta in volta si esibisce.

Le canzoni sono quasi tutte classici già nel repertorio di altri artisti che, in quello dei NBZ, perdono a volte di raffinatezza, ma guadagnano certo in immediatezza.

Così è l’inziale Tore Down, di Freddie King, nel repertorio anche di Eric Clapton, un boogie caratterizzato dal fitto dialogo tra chitarra e armonica che fanno meraviglie.

Neanche il tempo di rilassarsi ed ecco Straighte her Out, un brano questa volta originale, più blues oriented del precedente ma ugualmente efficace con i suoi stop e le sue ripartenze.

Homework di Otis Rush, è tirata allo spasimo, ed è l’occasione per far partecipare il pubblico mentre la traccia numero quattro è occupata da I Can’t Help Myself un classico di casa Motown, nota nella versione dei Four Tops che qui, spogliata da ogni orpello superfluo, diventa una sorta di inno alla gioia dal ritmo irresistibile.

Anche Can I get a Witness di Holland Dozier & Holland è un classico del soul, già nel repertorio di Marvin Gaye: la versione qui proposta, un torrido r’n’b, si fa apprezzare anche per le vaghe influenze beat. Il solo di armonica è particolarmente riuscito.

Un classico di Lionel Hampton è Ridin’ On the L&N, già nel repertorio di John Mayall: qui introdotto da un lungo solo di armonica, si sviluppa a mò di r’n’b secondo i canoni più classici del genere. Nessuna sorpresa ma ancora tanta energia.

I Can’t Quit You Baby, di Willie Dixon è una canzone riproposta anche dai Led Zeppelin; la versione è dilatata con armonica in primo piano e un solo di Greaves alla chitarra veramente notevole.

Stop Your Naggin’ ha la velocità della luce mentre Hootchie Cootchie Coo di Hank Ballard ha un groove devastante sul quale l’armonica compie vere e proprie acrobazie sonore.

A sorpresa, o quasi, ecco arrivare Woolly Bully con lo spirito di John Belushi che aleggia sul gruppo, mentre la successiva I Got My Moyo Working, di Muddy Waters, non sfigura certo rispetto all’originale del maestro di tutti i bluesmen.

Ma è ancora un pieno di energia Pack Fair and Square che ha un ritmo forsennato e che, per intenzioni, avvicina i NBZ ai Ramones.

Watch Yourself ha un giro tipico del blues di Chicago mentre la conclusiva Swing Job è un esercizio stilistico durante il quale ogni componente del gruppo ha l’occasione per mettere in risalto i propri talenti.

Il disco viene nuovamente pubblicato nel 2012 in un’edizione Deluxe, nella quale compaiono i brani proposti come bis del concerto, sette in tutto.

Rocket 88 è un siluro che viaggia a velocita supersonica con batteria e basso che spaccano le orecchie e il suono dell’armonica che ti entra dentro; gli stop, le ripartenze, le rullate di batteria e il battito delle mani danno un senso di irrefrenabile allegria.

Just a Little Bit ha il ritmo nel sangue e precede Twenty Yards Behind un brano che, per certi versi, mi ricorda l’atmosfera (e il ritmo) di Johnny Be Good.

Finalmente un momento di pausa è quello che viene concesso dal classico Stormy Monday, riproposto in una monumentale versione nella quale confluiscono tutti gli stereotipi (ma in questo caso non è un difetto) del blues, quello vero, Is that You? È rock ‘n’roll che ricorda molto da vicino gli Stones degli esordi e Keep on Knocking è un boogie che sembra non finire mai.

Chiude, nel pieno rispetto della qualità di tutto il disco (e del concerto) Madison Blues, un blues con un “tiro” formidabile che, introdotto da una lunga parte strumentale dove la chitarra fa faville, nel proseguo è anche l’occasione per tributare il giusto merito ai componenti del gruppo.

Cosa dire di più: un disco bellissimo, un concerto memorabile, una “botta” di energia pura.

Non so se i Nine Below Zero, trascorsi quasi 40 anni, siano ancora questi, però la curiosità di verificarlo è forte. Da quel che ho inteso la formazione dovrebbe essere, più o meno , quella originaria.

Io il primo di novembre al Druso ci sarò. Mi auguro di incontrarvi tutti, se non altro in segno di ringraziamento per i titolari del locale che si sbattono e vanno controcorrente per proporre sulla sonnolenta scena musicale bergamasca un concerto che potrebbe rappresentare un piccolo evento.

P.S. dimenticavo che il 28 ancora al Druso ci sono i Jefferson Starship.

È tutto. Buona musica!

Albero genealogico:

Figli, figliocci, adozioni:

Rival Sons: Great Western Walkyrie

Fratelli:

The Blues Brothers: OST

Dr. Feelgood: Stupidity

Fratellastri: 

Ramones: End of the Century

Genitori:

John Mayall & Bluesbreakers: A hard Road

Muddy Waters: Muddy “Missisippi” Waters – Live

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