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L'intervista

Rizzi Brignoli: “L’Italia non fa crescere la cultura A rischio i piccoli teatri”

Dopo le clamorose dimissioni di Riccardo Muti dalla direzione del Teatro dell'Opera di Roma, Roberto Rizzi Brignoli, bergamasco che dirige orchestre nel mondo, prova a spiegare i problemi del far musica in Italia e fa un paragone con la gestione dei teatri stranieri, quelli di Berlino per esempio, con la realtà del nostro Paese, culla di cultura, ma senza sguardo al futuro.

Dopo le clamorose dimissioni di Riccardo Muti dalla direzione del Teatro dell’Opera di Roma (e il successivo licenziamento dell’orchestra e del coro) Roberto Rizzi Brignoli, bergamasco che dirige orchestre nel mondo, prova a spiegare i problemi del far musica in Italia e, ampliando l’attenzione oltre Bergamo, fa un paragone con la gestione dei teatri stranieri, quelli di Berlino per esempio, con la realtà del nostro Paese, culla di cultura, ma senza sguardo al futuro.  

Una situazione quella del Teatro dell’Opera, maestro, che oggi fa gridare allo scandalo, ma che forse era annunciata, o no? 

Annunciata? Altro che… diciamo che questo botto è la punta di un iceberg, ma che ha alle spalle anni, anzi decenni di mala-gestione, di piccoli-grandi scandali, di privilegi, di mancanza di lungimiranza, anche da parte dei manager della cultura, non nascondiamoci.

Ci spieghi il suo punto di vista, il punto di vista di un esperto del settore, un direttore d’orchestra che lavora all’estero soprattutto, in Germania per esempio…

Ecco, la Germania può far capire come si devono gestire i teatri. A Berlino, dove lavoro abitualmente c’è un giusto e virtuoso mix tra qualità e quantità che porta a strutture sempre in movimento e riempie i teatri.

Cioè?

Le dico: nei teatri più importanti si producono più di 300 rappresentazioni d’opera all’anno con un repertorio vastissimo.

Trecento?

Certo, non sono tutte nuove, ma sono messe in scena che danno varietà d’offerta al pubblico, danno vita ai teatri, danno lavoro agli orchestrali, ai cantanti, al corpo di ballo… un insieme che consente di tener bassi i costi e di conseguenza di riempire i teatri, consentendo con gli introiti di creare eventualmente nuove produzioni.

Invece da noi?

Invece da noi i teatri hanno sempre puntato su nuove produzioni,con pochissimi casi di collaborazione tra le diverse istituzioni teatrali,produzioni costosissime, per tutta una serie di motivi, a cominciare dai cachet concessi ad alcuni artisti nel passato, e proseguendo con i privilegi di cui sentiamo fin troppo parlare in questi giorni, i contratti integrativi dei singoli teatri, quelli che bloccano la mobilità lavorativa e produttiva, che fanno alcune volte lievitare a dismisura il costo di una rappresentazione e che consentono di ricattare l’intera struttura mettendo in forse le attesissime "prime". Era importante invece negli anni preparare alcuni dei nostri teatri affinchè diventassero teatri di repertorio, esattamente come in Germania, ma anche in altre parti del mondo. Oggi avremmo sopportato meglio il peso della crisi.

Colpa dunque dei musicisti, dei cantanti…?

No, non è così. Qui, nell’Italia patria del melodramma, culla di cultura, nel Paese che tutti ci invidiano, paghiamo il risultato di quella che è un’evidente, evidentissima stortura che viene da lontano.

Da dove viene?

Appunto dalla mancanza di lungimiranza dei manager, dei politici, anche delle agenzie artistiche, di chi insomma ha gestito la nostra cultura.

Cosa significa?

Che non abbiamo coltivato, coccolato, fatto crescere l’amore per il teatro, per l’opera nei bambini, nei giovani, in coloro che oggi sarebbero stati i nostri politici e i nostri imprenditori… Temo che quello a cui assistiamo oggi porterà a quello che io penso sia la volontà di qualcuno: la chiusura di molti teatri.

Perché dice questo?

Perché non solo c’è un forte calo delle presenze di pubblico a teatro, ma la mancanza di passione, di vita nella cultura fa sì che non si trovino nemmeno gli sponsor che potrebbero dare un po’ di linfa alle strutture ormai piene di debiti (salvo poi chiedersi perchè si sia arrivati a debiti così imponenti e condannarne i responsabili).

Non ci sono sponsor per il teatro per colpa dei teatri stessi?

Se io fin da ragazzino sono abituato a frequentare l’opera, la musica, la danza… (e lo posso fare se i prezzi non sono impossibili e se l’offerta è variegata e continua) il teatro diventa una parte imprescindibile della mia vita, come succede in Germania. Così, crescendo, resto legato a questa realtà e, se sono un imprenditore mi sento coinvolto nel sostegno di questa cultura. Qui, in Italia, mi smentisca se non è vero, le imprese preferiscono sponsorizzare il calcio.

Pochi soldi privati dunque…

Pochi soldi privati, aggiungiamo la crisi economica, aggiungiamo lo Stato che taglia i fondi e li taglia sempre innanzitutto alla cultura, aggiungiamo anche, come esempio, che oggi posso comodamente dalla tv di casa assistere ad un concerto del Metropolitan di New York (fatto sicuramente positivo per moltissimi aspetti, ma che inevitabilmente allontana molta gente dalla frequentazione vera dei teatri)… ecco senza lungimiranza e proposte importanti per costruire il futuro della cultura si arriva dove siamo arrivati noi.

Da quello che racconta sembra una situazione irrisolvibile, anzi che non può che peggiorare, è così?

Io penso che la soluzione stia soprattutto nelle persone, nella scelta delle persone, dei sovrintendenti, dei direttori artistici, e soprattutto dei politici. Devono essere persone speciali, con grandissime capacità manageriali, che non si limitino ad affrontare i problemi dell’oggi, ma programmino il domani, magari anche passando dalla scuola e dall’insegnamento obbligatorio della musica anche alle superiori. La differenza si fa così ed è quello che molti Paesi europei e non europei hanno fatto. La cultura è una grande forza-lavoro ed è un grandissimo patrimonio di questo Paese: ha bisogno di personalità forti, di dirigenti professionalmente talentuosi.

Il suo pare un appello.

Un appello a tutti, ma soprattutto agli intellettuali, quelli veri: si facciano avanti! Oggi più che mai abbiamo bisogno del loro lavoro ma anche della loro parola.

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