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Musica

In concert!

Super Stevie Wonder incanta Lucca: show memorabile con “lode”

Ci voleva Stevie Wonder per far sbilanciare il nostro Brother Giober che etichetta come “memorabile” il concerto di domenica 20 luglio in piazza Napoleone a Lucca: i frequenti botta e risposta con il pubblico e la qualità dello show hanno messo in mostra uno Wonder in grandissima forma.

Giudizio:

* alla terza canzone volevo andarmene

** era meglio andare al cinema

*** niente male!

**** bene, bravi, bis!

***** epocale!

 

 

Giorno: Domenica 20 luglio 2014

Luogo: Piazza Napoleone, Lucca

Artista: Stevie Wonder

Giudizio: ***** e lode

Quasi non ci credo! Sono sull’autostrada, indirizzo Lucca, piazza Napoleone, per andare a vedere il mio “preferito” in assoluto, Stevie Wonder, al quale mi legano molti ricordi della mia adolescenza e un’ammirazione sconfinata. Con me il mio amico Andrea, noto avvocato penalista e musicista, autore di alcune “malefatte” (ma simpatiche) sul Web in occasione delle ultime elezioni a sindaco di Bergamo già oggetto di mio dileggio su queste pagine. Manca la “Raffa”, una delle mie cantanti preferite (se dico la preferita, gli altri vocalist del mio gruppo mi tolgono il saluto) che ci ha dato buca all’ultima ma per una nobile causa.

A Lucca mi aspetta un altro amico, Roberto, uno degli sponsor principali, grazie a lui ogni anno ho il posto fisso nella tribuna vip (il termine non mi piace proprio ma così è) e grazie a lui posso frequentare il backstage dove prima del concerto si tiene sempre una specie di party al quale partecipano persone più o meno conosciute, oltre tutta la Lucca che si vuole mettere in mostra.

Arrivato in città, immediatamente percepisco una certa elettricità nell’aria, vuoi per la gente numerosissima che circola per le strade, vuoi per le note di un Bob Marley di annata in sottofondo. Non trovo neanche un “buco” per parcheggiare, lo faccio praticamente su una aiuola (so che non dovrei dirlo, però riesco miracolosamente a evitare la multa).

Appena arrivato in Piazza mi viene incontro il mio amico Roberto che di peso mi porta nel backstage. Un formidabile duo (chitarra e batteria) intrattiene i presenti ai quali viene offerto ogni ben di Dio: riconosco tra i presenti Paolo Rossi (il calciatore), Panariello presente con sua “nipote”, Zucchero (che non manca mai), il medico della nazionale di calcio ai recenti mondiali (di cui non ricordo certo il nome) e Marco Mengoni. Quest’ultimo, a differenza degli altri citati, è cortese e disponibilissimo: gli chiedo una foto (penso a mia figlia che forse è una sua fan) mi sorride e mi propone un autoscatto insieme, e così il mio faccione vicino al suo viene stampato e inviato per sms alla mia secondogenita, la quale mi risponde che Mengoni non le piace proprio: amen!

Alle 21,30 mi incammino verso il posto a me riservato: da lì la vista è perfetta, circa 50 metri dal palco in posizione più elevata rispetto a tutti quelli che mi stanno davanti e, in più, una serie di schermi mi aiutano ad avere la sensazione di essere ancor più vicino.

Guardo il pubblico, mi sembra quello delle grandi occasioni, 9000 e più persone, mi dicono sia presente anche il Ministro della Pubblica Istruzione Stefania Giannini. Tanti giovani ma anche tante persone della mia età: numerosi striscioni inneggianti a Stevie Wonder, sugli schermi appaiono i messaggi inviati dai presenti al sito del festival.

Nell’aria un’atmosfera speciale, da grandi eventi. Al di là delle transenne ancora centinaia di persone, tutte in attesa dell’arrivo di uno dei pochi alfieri della black music capace di calamitare un pubblico così folto.

Finalmente verso le 10 si spengono le luci e parte un ritmo funkeggiante: i musicisti sono tutti sul palco, sono 14 su due livelli, sopra la sezione ritmica, batteria e due set distinti di percussioni, più sotto, da sinistra, un tastierista, la sezione fiati con un sassofonista (strepitoso) e un trombettista, due chitarre, un basso e i coristi, cinque in tutto, quattro donne tra cui la figlia Aisha (quella singhiozzante di Isn’t She Lovely) e un uomo.

Manca solo Lui che entra dopo circa due minuti, con sahariana verde, pantalone per dirla con un eufemismo “comodo” e tastiera a tracolla. Stupisce che sia solo, senza aiuto e che tutto sommato affronti la camminata con passo sicuro.

L’inizio è affidato ad un classico della Motown: How Sweet Is it to be Loved by You di Marvin Gaye, arrangiata in modo originale anche se la melodia è riconoscibilissima. Il viso mi sembra leggermente più sofferto del solito, non quello del solito “bambinone” entusiasta di tutto. A parte ciò, sin dal primo brano si ha la netta percezione che Stevie Wonder sia in gran forma, voglioso di suonare, ridere e scherzare e di chiudere in bellezza il tour (questa è l’ultima data): così la canzone è dilatata con frequenti botta e risposta con il pubblico, a cui Stevie chiederà di fare da coro per tutto il concerto.

Il secondo brano, Keep On Running, è del 1972, tratto da Music of My Mind, è nuovamente il pretesto per coinvolgere il pubblico il quale, poi, è già tutto in piedi alle prime note, inconfondibili, di Higher Ground e il suo andare sincopato.

Ci sono numerosi elementi che mi colpiscono guardando il palco e ascoltando il suono che gli amplificatori irradiano.

In primo luogo la mostruosa bravura dei musicisti: i percussionisti sono uno spettacolo nello spettacolo, la sezione fiati pirotecnica, il bassista fantastico, il chitarrista giapponese non è solo scenografia, e si capisce facilmente che tutti i presenti sul palco sono di caratura eccezionale.

Poi il suono: perfetto. Qualche settimana prima ero venuto a vedere gli Eagles (altro bel concerto): anche lì l’amplificazione era perfetto, ma nulla a che vedere con quella di stasera, perché quando fissi sul palco uno strumento riesci a percepirne distintamente anche le note.

Terminata Higher Ground che lascia esausto il pubblico è la volta di As If You read my Mind, durante la quale, per la prima volta, appare il magico suono dell’armonica, cui segue Tequila che Stevie Wonder suona utilizzando l’harpejji, uno strano strumento, una via di mezzo tra una tastiera e una slide. Il brano è un intermezzo simpatico e un pretesto per scambiare ancora alcune battute con il pubblico, continuamente sollecitato a rispondere alle provocazioni scherzose dell’artista, tra cui un continuo sostituire la parola “Tequila” con “Lucca”.

Non manca l’omaggio ai Beatles, ricordati con una versione soul e molto ritmata di Day Tripper. Chi avrà avuto nelle orecchie l’originale, avrà fatto fatica a digerire il refrain affidato alla sezione dei fiati, ma il risultato finale, oltre che stupefacente, è assolutamente godibile. Magnifico il solo di chitarra, concesso al musicista, dei due, di colore.

Vi è il tempo per il romanticismo e arriva Send One You Love, nella quale giganteggia un intervento maestoso dell’armonica.

Forse l’omaggio è un po’ scontato, ma quando parte la melodia di nel Blu dipinto di Blu tutta la piazza inizia a cantare e sono brividi veri. Probabilmente l’artista aveva messo in preventivo solo pochi accenni ma il pubblico, travolto, va oltre e allora Stevie è quasi obbligato ad improvvisare e così tutto il gruppo che riesce però a seguirlo in modo impeccabile.

È la volta di una splendida versione di Overjoyed cui fa da coda un breve richiamo a Ribbon in the Sky.

L’intro spagnoleggiante di Don’t You Worry ‘bout a Thing alza nuovamente il ritmo e la temperatura della serata: un po’ più lenta rispetto alla rilettura degli Incognito, la versione è comunque bella e vive dell’importante contributo della sezione ritmica che arricchisce di colori un brano già di suo pirotecnico e coinvolgente.

Parte una sequenza di puro ritmo che coinvolge tutto il pubblico che oramai balla senza più alcun ritegno e così in rapida sequenza ecco Signed Sealed delivered, Sir Duke (eccellente), I Wish, Vision ( da Innervisions) e Living for the city.

È poi la volta di Ebony & Ivory un successo dei primi anni ’80, un duetto con Paul McCartney, che Stevie Wonder si diverte ad imitare durante la versione proposta. Mentre Stevie Wonder canta il brano, i tecnici si adoperano per posizionare al suo fianco tre sedie e tre cajon, perché è la volta di Part-Time Lover: i due percussionisti scendono e si siedono in parte all’artista; tutti, compreso Stevie, hanno tra le loro gambe il cajon per una versione tutto ritmo del brano. Il divertimento è assicurato e anche la canzone, che in fin dei conti non è gran cosa (sembra, troppo, una di Hall and Oates), acquisisce per un momento il rango di classico.

Un lungo brano, Apartheid is wrong, dà l’occasione a Stevie di recitare una sorta di sermone contro la violenza: la parole scandite nell’aria No War, no Terrorism, no More, anche in questa occasione di festa, risuonano minacciose e gravi e quando l’artista richiama il dramma dei bimbi uccisi, l’emozione e la commozione sono evidenti e paiono del tutto sincere.

Tocca alla famigerata I Just Called to Say I love You che i veri fans non amano più di tanto ma che ha permesso a Stevie Wonder di superare i confini del soul e abbracciare quelli ben più ampi e remunerativi del pop, a cui segue una versione strepitosa di Michelle dei Beatles, cantata da tutto il pubblico.

Sin dall’inizio del concerto le telecamere inquadrano una coppia: si capisce che si sono sposati oggi, lei indossa il classico abito bianco, lui quello scuro da cerimonia e sono seduti in prima fila. Nelle inquadrature sino a questo momento a loro dedicate è stato possibile vedere il coinvolgimento, soprattutto, di lei, che ha cantato, gridato e ballato. Ora si alza, si avvicina ad un uomo della sicurezza al quale consegna il proprio bouquet che viene recapitato a Stevie Wonder, il quale lo tocca e ne annusa il profumo. Poi si avvicina ad un musicista e gli dice qualcosa nell’orecchio: due minuti dopo i due fortunati (almeno oggi) sono sul palco, sorpresi e felici, e ballano e si baciano con grande divertimento di tutti sulle note di All I Do, a cui fa seguito una torrenziale versione di Us (da Songs in the Key of Life) e poi di For Once in my Life.

Con una mia certa sorpresa, perché non è uno dei pezzi più famosi, ma comunque uno dei miei preferiti, arriva Happy Birthday, da Hotter Than July, per concludere con il classico dei classici, Superstition, reso in una versione lunghissima al termine della quale il pubblico tributa un’ovazione calorosissima.

Non c’è tempo per i bis, vista anche l’ora tarda, ma nulla si può chiedere di più, perché la sensazione è che ci sia stato dato tutto quelloche era possibile, e anche di più. Un concerto memorabile, uno dei più belli della mia vita.

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