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Il reportage

Francesco, Ionup e Marco Tre carcerati in via Gleno “Sogniamo una nuova vita”

Le storie di tre detenuti nel penitenziario bergamasco, un 58enne di Trescore, un 29enne romeno e un 33enne milanese: "Abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo. Ma poi dateci una possibilità per ripartire"

Di Mauro Paloschi

Rincorrono il pallone con la stessa felicità di quando erano bambini. Del resto, le partite a calcetto sono uno dei pochi momenti che hanno per evadere, almeno mentalmente, dalla monotonia di una quotidianità vissuta dietro le sbarre di una cella.

Sono alcuni dei detenuti del carcere di via Gleno a Bergamo, che hanno partecipato al torneo di calcio a 7 organizzato dalla Uisp, Unione italiana sport per tutti in collaborazione con ReteTerzoTempo, inserito nel progetto “Oltre il muro, porte aperte allo sport”.

Per la cronaca il torneo, durato un mese, è stato vinto dalla squadra del Penale. Ma il risultato, mai come in questo caso, conta pochissimo. La vittoria più bella è il sorriso sulla bocca di tutti i partecipanti, che al termine della finale si ritrovano nella sala riunioni per la premiazione, con una maglietta ricordo ciascuno e un rinfresco a base di pizzette e pasticcini (con qualcuno che ne raccoglie un piattino da portare ai compagni di cella).

Tra i giocatori c’è Francesco Ghilardi, 58 anni, di Cisano Bergamasco. Carnagione scura, viso segnato dalle rughe e pizzetto grigio lungo quanto la sua esperienza di vita. Tanto che, come forma di rispetto, gli altri detenuti lo chiamano "zio". Ha un passato da carpentiere e una condanna sulle spalle a 10 anni e 8 mesi per associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti.

Una sentenza arrivata solo nel 2012, per una denuncia risalente al 2001: “Al momento dell’arresto ero a Lanzarote per lavoro. Appena ho saputo del mandato mi sono subito costituito – racconta Francesco mentre fuma una sigaretta – L’ho fatto perché spero in uno sconto della pena. Per me, ma in particolare per la mia famiglia. Là fuori ho due figlie e quattro nipotini con la mia ex moglie, una compagna e soprattutto un bambino di nove anni. Non può crescere senza papà. Ho sbagliato, lo so, e sto giustamente pagando la mia pena, ma spero che comportandomi bene mi facciano uscire prima”.

Parlando dei suoi cari Francesco abbandona per un attimo lo sguardo da duro e si commuove: “Non posso stare chiuso qua dentro dieci anni e lasciare soli il mio piccolo e la mia compagna, che è anche rimasta senza lavoro. Voglio molto bene a loro due, sono tutto per me. La sera prima di addormentarmi, da solo nel mio letto, pensandoli a volte piango”.

L’ex carpentiere torna a sorridere quando parla della vita in carcere: “A parte questo, devo dire che qua mi trovo bene. Non mi posso lamentare. Il rapporto con i miei compagni è ottimo, e non abbiamo problemi di convivenza. Lavoro come ferraiolo e guadagno circa trecento euro al mese: 50 li verso come spese del carcere, 50 li tengo per le mie cose, e gli altri li faccio avere alla mia compagna”.

Ghilardi ha una sua idea sul caso Yara e sull’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti: “L’ho intravisto un paio di volte, in occasione dei colloqui. Mi è sembrato tranquillo, un po’ come tutti noi. Io penso che se fosse davvero colpevole sarebbe da ammazzare. Ma non si può condannare una persona prima che sia stata processata”.

Poco più in là, tutto solo in un angolo, c’è il 29enne romeno Ionup Popa, ex elettricista di Trescore Balneario. Occhi azzurri e sguardo perso nel vuoto, a rimuginare su un passato che vorrebbe cancellare: “Sono dentro per rapina, condannato a due anni e otto mesi – racconta a voce bassa – . Ero dipendente dal gioco d’azzardo. Negli ultimi tempi spendevo tutto il mio stipendio alle macchinette. Fino a quando un giorno, esasperato, ho deciso di rapinare una ricevitoria. Anche un po’ per vendetta”.

Il volto di Ionup si incupisce ancora di più quando parla dei suoi famigliari: “I miei genitori sono in Romania. Qua in Italia ho una moglie e un figlio di sei anni, ma da quando sono rinchiuso in carcere nessuno è più venuto a trovarmi. Tutti si sono dimenticati di me. Cosa ne sarà della mia vita? Non vedo un futuro, ora come ora. Passo le mie giornate a pensare a un domani che non c’è. Le celle sono affollatissime. Viviamo in pochi metri quadrati, e abbiamo il water in parte alla cucina. Uno schifo, insomma”.

L’arbitro ha già fischiato la fine dell’ultima partita, ma Marco A., 33 anni di Bollate (in provincia di Milano), non vuole abbandonare il campo e lasciare quel pallone. Di tempo da trascorrere dietro le sbarre ne ha ancora molto, con la sua condanna in totale a 12 anni e 3 mesi per diversi episodi di rapina, furto e ricettazione: "Ho perso mio papà a 12 anni, per overdose. E ti assicuro che un episodio del genere a quell’età ti segna profondamente – spiega mentre si toglie la maglietta della squadra e mostra un fisico pieno di tatuaggi – . Questo non per giustificarmi, sia chiaro. So di aver sbagliato. A 14 anni ho iniziato a fumare cocaina, e di lì a poco a rubare per procurarmi il denaro per comprarla". 

Con il suo accento milanese, Marco ci tiene a raccontare la sua storia: "Ho girato vari penitenziari prima di arrivare a Bergamo. L’ultima volta che sono stato arrestato mi trovavo in Spagna. Mi hanno estradato e rinchiuso a Rebibbia. Ma poi ho chiesto e ottenuto il trasferimento qua. L’ho fatto per mia madre. Lei è invalida, e a Roma non sarebbe mai potuta venire a trovarmi. Ora invece riesco a vederla spesso. E’ la cosa più importante che mi è rimasta. Ma sono ancora giovane, e una volta uscito da qua voglio farmi una famiglia tutta mia. E soprattutto basta cazzate, basta!"

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