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The War on Drugs: rock, anzi space rock, da meraviglia

Brother Giober ha già trovato quello che potrebbe essere il migliore disco del 2014: Lost in the Dream di The War on Drugs. E annnuncia che, al contrario di quanto gli succede ultimamente "da domani attenderò con impazienza la nuova uscita di questo gruppo".

Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** in fin dei conti, poteva essere peggio

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

 

 

ARTISTA : The War on Drugs

TITOLO: Lost in the Dream

GIUDIZIO: ****1/2

Approfitto della pausa pranzo per scrivere le recensioni, spesso in compagnia di una tristissima insalata e sempre sul punto di arrendermi a un sonnellino che, con il passar degli anni, diventa sempre più esigenza. Insomma un’immagine triste che poco si concilia con quella che dovrebbe essere un’anima rock.

Qualche giorno fa, cercando di vincere l’indolenza, ho iniziato a cercare sul web l’ispirazione per la recensione della settimana. Onda Rock, magazine on line serio e competente, dedicava un articolo a The War of Drugs, un gruppo a me sconosciuto. I giudizi erano molto positivi e quindi incuriosito ho scaricato il disco e ho iniziato ad ascoltarlo sempre con maggiore attenzione rimanendone alla fine completamente rapito perché, questo, è un grandissimo lavoro che piacerà a tutti gli amanti della musica americana, alle persone che hanno passato i loro anni ad ascoltare Tom Petty, il Boss, i Grateful Dead, gli Allman Brothers, a coloro che hanno vissuto nel mito della notte, della strada, a coloro per i quali sognare resta un bisogno.

The War on Drugs nascono nel 2005 e hanno pubblicato, ad oggi, oltre una serie di EP, tre album questo compreso. I primi due non sono gran cosa, un folk rock a volte soporifero privo di veri guizzi. Poi qualcosa deve essere successo: l’andirivieni di alcuni componenti, l’affermarsi della leadership di Adam Granduciel, fatto sta che la musica è cambiata, i ritmi si sono fatti più decisi, il suono della batteria più marcato.

Difficile, se non richiamando qualche similitudine peraltro non del tutto esaustiva, descrivere la musica di The War of Drugs: i brani sono tutti abbastanza lunghi, frequenti sono le “cavalcate” solo strumentali, protagonista la chitarra. Quello che maggiormente colpisce è la fluidità, perché in questa musica nulla pare forzato, nessuno spigolo, tutto fila meravigliosamente.

La sensazione sempre presente è quella di spazi ampi, di paesaggi infiniti, di un clima avvolgente.

Persino l’uso del sintetizzatore non disturba, anzi rafforza la sensazione del sogno e mi porta, per descrivere il tutto, a utilizzare il termine di space rock proprio a simboleggiare l’atmosfera onirica che avvolge l’insieme.

Prendete ad esempio il brano posto all’inizio del lavoro, Under the Pressure: l’inizio è affidato ad alcune rarefazioni elettroniche, poi una chitarra tremolante, annuncia lo sviluppo di un brano che è epico pur restando in tutto il suo svolgersi semplice, basato su un riff di chitarra convincente, un drumming che ricorda alcuni gruppi new wave degli anni 80. Una meraviglia sonora assoluta, un brano straordinario, uno choc totale. Per me il disco potrebbe anche terminare qui, sarebbe già abbastanza. Senz’altro Under the Pressure si candida ad essere uno dei migliori brani del 2014.

Red Eyes è il singolo, uscito a dicembre, che ha anticipato l’album. L’incipit di chitarra richiama molte cose degli anni ’80 (Cure nei loro brani più briosi, in particolare), sino a quando arriva l’esplosione strumentale con ancora la chitarra di Adam Granduciel protagonista, mentre il ritmo sale. Intervengono poi le tastiere, il clima cambia e diventa sognante e poi ripartono le chitarre, di nuovo fragorose. Sono presenti i suoni di un sintetizzatore che non disturbano affatto e paiono del tutto funzionali all’insieme. Meno bello del primo brano ma il livello è sempre alto.

Suffering è un brano calmo e rilassato, lontano per l’atmosfera da buona parte del restante lavoro. Il suono e la costruzione richiamano alcune cose dei Dire Straits e, in alcune parti, non è difficile riconoscere la mano del Boss. La resa finale è di elevato livello, l’atmosfera che si viene a creare particolarmente suggestiva. Uno di quei brano da ascoltare con gli occhi sbarrati rivolti fuori dalla finestra.

Con An Ocean In between the Waves, si torna al clima dei primi brani; quindi il ritmo è serrato, la chitarra e il drumming protagonisti. Un brano epico, all’interno dei quale frequenti sono gli intermezzi solo strumentali e la parti cantate hanno un pathos tutto loro. La lunga coda strumentale è, per intensità, stupefacente ed elettrizzante. Pare di tornare indietro di anni, quando saper suonare aveva il suo significato.

Disappearing è forse il miglior brano dell’intera raccolta: un’immersione totale in un mare di romanticismo, con la chitarra che distilla le proprie note e sullo sfondo un perfetto tappeto di tastiere. La voce sembra più distante, probabilmente perché è il suono che deve essere protagonista, ed è un suono meraviglioso, penetrante. La canzone dura quasi sette minuti, gli ultimi 4 sono tutti strumentali, solo una voce in lontananza usata anche lei come uno strumento. Le note della chitarra rimbalzano qua e là, con un gusto e una misura che mi erano sconosciuti da tempo. Poi il ritmo diminuisce e anche il volume, piano piano, hai la stessa sensazione di qualcosa che ti sta sfuggendo tra le dita, nonostante tu faccia di tutto per trattenerla.

Hai appena finito di stupirti ed ecco arrivare Eyes to the Wind, una ballata mid tempo presa a prestito dai suoni di Tom Petty, con il piano in sottofondo che potrebbe essere quello di Benmont Tench e una melodia che forse già sentita che, comunque, ti cattura per quanto è bella. Un brano di quasi sei minuti con una lunga coda strumentale che richiama ad alcune atmosfere della Steve Miller band, o della ABB, un crescendo continuo, un esplosione di suoni tra i quali anche quello, lontano e inaspettato, di un sax, che ricorda vagamente Jungleland.

Le solite rarefazioni elettroniche introducono The Haunting Idle, un brano questa volta di breve durata e solo strumentale nel quale a farla da padrona è la chitarra del leader. Un intermezzo suggestivo ma che alla fine ci poteva essere risparmiato.

Un crescendo di palpiti elettronici è quello che anticipa Burning, un brano che per il modo di cantare e l’uso delle tastiere ricorda il Boss più commerciale (quello di Tunnel of Love e giù di lì) sennonché qui c’è più misura, più discrezione, sì che il brano, pur forse non all’altezza dei precedenti, non disdegna, anche per la presenza di un refrain riuscito.

È quindi la volta della title track: un arpeggio di chitarra dà il via a un brano lento, rarefatto che ricorda alcuni degli ultimi lavori di Mark Knopfler. L’eleganza del suono delle chitarre nel mezzo del brano affascina, suggestiona e l’aggiunta delle tastiere verso la fine emoziona. Con un impianto all’altezza il brano potrà acquisire senz’altro ulteriore pregio.

Chiude In Reverse, un brano ancora lento, all’inizio, con la voce in primo piano a scandire il testo e in sottofondo i soliti effetti ambient. Poi il ritmo sale e la canzone assume i caratteri della ballata, con la chitarra ancora protagonista. Il brano scorre fluido, la melodia è evocativa e l’effetto finale assicurato.

Mi è capitato di pensare che un segno del trascorrere del tempo, almeno musicalmente, sia che non esiste più un artista per cui trepido nell’attesa della nuova uscita discografica. Quando ero giovane lo facevo per il Boss, per Patti Smith, per Van Morrison, per Bob Marley. Ma forse qualcosa è cambiato perché da domani attenderò con impazienza la nuova uscita di The War on Drugs.

Se non si vuole ascoltare tutto il disco: Under the Pressure

Se non ti basta ascolta anche:

Tom Petty – Into the Great Wide Open

Mark Knopfler – Privateering

Television – Marquee Moon

P.S. Segalo ai miei amici la distribuzione di una nuova bella rivista intitolata Outsider, direttore quella vecchia volpe di Max Stefani (Mucchio Selvaggio). Il giornale nelle intenzioni della redazione si rivolge ai quarantenni/cinquantenni amanti della buona musica, e ancora legati alla carta e al vecchio sano rock. La maggior parte degli articoli è rappresentata da traduzioni della stampa estera. L’impaginazione è abbastanza lussuosa, un po’ Out of Time il contenuto, però alla fine merita i sette euro che chiede. È tutto.

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