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Domina domna

Quando il cinema salva la montagna I documentari di Locatelli

La regista bergamasca ospite della rassegna Domina Domna con due opere rimarchevoli sulla realtà dei paesi montani, in dialogo tra innovazione e tradizione. I due documentari, premiati in diversi festival, sono opere originali e non banali, nonché di ottima qualità, promettenti condizioni che tuttavia la nostra città si è purtroppo fatta sfuggire.

Articolo a cura di be.Beap \ Bergamo’s not dead!

Continua Domina Domna, la rassegna culturale “al femminile” organizzata dall’associazione La Scatola delle Idee, con l’interessante proposta di due brevi documentari di Alessandra Locatelli. La giovane cineasta, dopo gli studi presso l’accademia di Brera, sente la necessità di trovare modalità espressive diverse dalla pittura e dalle arti visive. Finisce così per diplomarsi allo IED di Milano in cui acquisisce, con evidente successo, le tecniche del linguaggio cinematografico, specializzandosi nell’ambito della documentaristica. “Questa forma artistica riesce a darmi quanto altri ambiti creativi non possono fare: mi permette di entrare nel cuore delle cose, di indagare”; con queste parole Locatelli sintetizza il forte attaccamento nei confronti delle sue opere, e certamente dei soggetti in esse contenuti. Tutto ciò trapela in modo considerevole dall’intensità delle sequenze delle due proiezioni di ieri sera, intitolate “…e invece era una volpe” e “Il rumore dell’erba”.

I due documentari, premiati in diversi festival, sono opere originali e non banali, nonché di ottima qualità, promettenti condizioni che tuttavia la nostra città si è purtroppo fatta sfuggire. Lo ha dimostrato l’esiguo numero di spettatori che hanno risposto all’iniziativa, un infelice risultato a cui si è, ahimè, tristemente abituati quando si parla di lavori di nicchia ben fatti. Il pubblico al cinema Capitol spinge per andare vedere uno scarso Ozpetek o un film in lingua originale, e se ne va spazientito scoprendo che, per un errore di sistema, il film in inglese “questa sera non potrà essere proiettato”. Nel frattempo, in una sala semivuota, stanno per iniziare due interessanti opere che raccontano, con semplicità e naturalezza, la vita di alcuni piccoli villaggi di montagna, la precarietà di una tradizione che sta per scomparire in quelle valli tanto familiari a chi vive a Bergamo. Nel primo lavoro, la regista si interroga sulle identità degli spazi domestici, trasformando la cinepresa nell’occhio di un viaggiatore discreto, seguendo, mescolandole, tre piste narrative. Queste indagano la debolezza di una tradizione che sta per essere soppiantata da un presente ingombrante, proiettato su un futuro asettico e spersonalizzato. Mentre un’anziana signora – sintetizzata nell’essenzialità di una voce fuoricampo – ricorda frammenti di un’infanzia idilliaca ormai lontana, vediamo moderni caterpillar demolire abitazioni centenarie di un centro storico cariche di memoria, per lasciare spazio a nuovi complessi edilizi e a turisti chiassosi, mentre un inerme signor Angelo, poco lontano, cerca di resiste al trascorrere dei giorni in qualità di ultimo abitante di un paesino altrimenti disabitato. Ritmo accurato, metafore visive raffinate e un uso sapiente delle tecniche del montaggio assicurano, tra gli altri elementi tecnici, un efficace apparato formale che conferisce valore a un’opera già significativa per via delle tematiche trattate. Il racconto, sembra suggerire la regista, è l’arma per resistere alla forza disgregante del tempo: tutto si trasforma, tutto è in movimento, cambiano le persone e i luoghi, le identità dei nostri spazi e dei i nostri panorami. Come preservare tutto questo? Qual è il valore storico di immortalare un momento presente? Come far rivivere i ricordi dei nostri nonni e delle nostre montagne?

La voce degli anziani è appunto il fil rouge che unisce i due documentari mostrati nella serata, l’immediata metafora di un tipo di conoscenza immemore ma fragile, ma anche della semplicità e dell’umiltà che contraddistingue le questioni di più intenso valore. Le storie più belle sono quelle tramandate oralmente, in famiglia o tra persone care, mentre si sta cucendo a maglia oppure lavando i piatti: sono storie semplici, bizzarre ma sempre magiche, che rappresentano la quintessenza della nostra identità, le radici del nostro essere. I racconti tramandati costruiscono gli aspetti fondanti del senso di appartenenza di una comunità ad un territorio, valori che nel 2014 sembrano forse sorpassati, soppiantati da altri usi e costumi; ma è paradossalmente la tecnologia, ad ogni modo, a farsi carico di raccoglierli e conservarli tutto ciò. Questo lo si può osservare bene nel secondo documentario mostrato, in cui il racconto dell’incontro ravvicinato di una signora nostrana con una volpe diventa il pretesto da parte della regista per collezionare frammenti di un’infanzia trascorsa, appunto, in un paesino montano della bergamasca. “E’ un affresco del mio paese. Questo documentario l’ho realizzato ovviamente da adulta, ma di fatto raccolgo i ricordi di quando ero bambina”; la cinepresa dell’artista imprime su pellicola immagini e suoni che all’epoca del iPhone5 sembrano riferirsi a valori superati, racchiusi nella voce biascicata di un’anziana del villaggio, un’enciclopedia aperta su un passato fatto di ricordi effimeri che il cinema ha il potere di immortalare, di riproporre e di ri-raccontare. Il tempo non si può fermare: questo è un dato di fatto; forte di questa consapevolezza la regista sembra dunque cercare, per quanto possibile, di mantenere un distaccamento da un seppur-inevitabile-giudizio dei condizionamenti estetici (e morali) dei “suoi” spazi. In questi non è tuttavia arduo riconoscere i “nostri” luoghi del cuore, le nostre città, le nostre piazze e le nostre vie, messe a repentaglio da affascinanti costrutti della modernità, che minacciano di fagocitare identità storiche, nonché di soppiantare e abbattere l’inestimabile patrimonio della tradizione popolare, montana e non. La montagna è protagonista anche del prossimo lavoro di Locatelli, che nel corso del cineforum organizzato al termine delle proiezioni, ha anticipato la prossima uscita di un lungometraggio intitolato “Il Passo”, realizzato dopo aver seguito per tre mesi le vicende di un giovane adolescente che decide di partire per la transumanza e imparare il mestiere antico del pastore. Certamente non si può che attendere con impazienza questo progetto insieme, magari, a una riproposta dei due documentari discussi fino ad ora, sperando che, in questa occasione, registrino un maggior seguito. Non lamentiamoci dunque se le valli si spopolano, i dialetti si perdono, i mestieri antichi si dimenticano e i racconti dei nonni svaniscono perché evidentemente siamo noi oggi a non volerli più ascoltare.

Stefano Rozzoni per be.Beap

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