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Dexter alla resa dei conti Venerdì l’ultima puntata: sarà redenzione?

Venerdì andrà in onda l’ultima puntata di “Dexter”, la serie tv crime-drama che ha sfidato le convenzioni di genere e il senso comune: ha conquistato il pubblico con la sua capacità di ribaltare la prospettiva eroe-antieroe ma, forse, nel corso delle stagioni è un po’ scaduto qualitativamente.

di Ivan Leoni

Venerdì andrà in onda l’ultima e definitiva puntata della serie Tv che ha sfidato le convenzioni di genere e il senso comune. Lo fa dopo otto stagioni di zelante servizio, durante le quali l’ematologo più famoso del mondo ha indossato i panni di padre, marito, fratello, amico, collega e complice. Tutti ruoli che ha interpretato come maschere sociali per nascondere la sua intima essenza di serial killer, nata nel sangue, all’età di tre anni, assistendo all’omicidio della madre.

Le ragioni per le quali si consiglia caldamente la visione di Dexter sono identificabili innanzitutto nell’originalità con la quale produttori e sceneggiatori hanno trattato il genere crime-drama e la psicologia del serial killer.

Il crime-drama non è certo inesplorato dalla serialità: le produzioni che raccontano le vicende poliziesche o la criminalità sono talmente numerose che sarebbe difficile offrirne un elenco esaustivo – giusto per nominarne alcune vanno ricordate CSI, Lie to Me, I Soprano, The Wire, The Black Donnellys, Boardwalk Empire, Sons of Anarchy, ma anche le italianissime Romanzo criminale e Squadra antimafia. Tuttavia, nella maggior parte di esse lo spettatore aderisce ai soggetti perché impegnato in un acuto esercizio di logica a ricostruire gli indizi seminati sapientemente nella trama o a trovare conferma dei propri pregiudizi su quello che si cela dietro le grandi organizzazioni criminali (mafie, narcotraffico, etc.) e anticrimine (CIA, FBI, dipartimenti di polizia, etc.). O, se proprio, perché viene ammaliato dalle strabilianti tecniche scientifiche con le quali assassini e criminali vengono assicurati alla giustizia. In ogni caso, è la gratificazione/rassicurazione di uno spettatore-bambino quello a cui i crime-drama seriali ci hanno abituati.

L’originalità di Dexter risiede, dunque, nel ribaltamento del canone classico di genere perchè l’intreccio non si innesta sulle modalità del crimine o dell’investigazione, ma sulla psicologia di un assassino di assassini, dalle sue origini sino all’epilogo. E nel farlo non delimita semplicemente i processi di una mente criminale in azione ma induce lo spettatore a prendere atto che le pulsioni e i retro-pensieri del pluriomicida sono – parzialmente o del tutto – condivisi dallo spettatore. Ed è quando scatta questo riconoscimento del criminale come simile a sé che ci si appassiona alla serialità di Dexter. Perché qual è il vero crimine del sociopatico Dexter Morgan se non il desiderio compulsivo di ricostruire l’unità affettiva con la propria genitrice, riproducendo ossessivamente la vendetta sugli assassini che lo resero orfano? Il gelo emotivo che rende il protagonista un criminale seriale non è nient’altro che la difficoltà che in ogni epoca storica gli esseri umani hanno dovuto, devono e dovranno affrontare per entrare realmente in relazione con gli altri, essere compresi ed amati incondizionatamente, come farebbe una madre.

Il ribaltamento di prospettiva eroe-antieroe non rassicura quindi lo spettatore ma lo provoca, costringendolo a riconoscere come proprie le pulsioni più profonde del criminale. E nel corso delle stagioni ne segue anche lo sviluppo emotivo fino a compiere una metamorfosi psicologica che si risolve nell’ultima puntata. Dexter, dunque, supera la propria dimensione di omicida seriale per imporsi come metafora dell’umanità intera. 

Giunti all’ultima puntata, la domanda che lo spettatore si pone è infatti questa: riuscirà il mostro di ieri a redimersi come essere umano? Si compirà la luminosa catarsi del “passeggero oscuro”? Sopravvivrà o soccomberà alla giustizia umana che ha il dovere morale di punire i colpevoli? Ma soprattutto: riuscirà Dexter, e con lui l’umanità intera, a superare i traumi della violenza subita ritrovando l’unità affettiva nelle relazioni con gli altri?

Il finale non elude la domanda offrendo però una risposta amara.

Dispiace però osservare il decadimento qualitativo che è stato imposto ad un soggetto tanto ben costruito almeno per quattro stagioni. A giudicare dalla scarsa attenzione degli ultimi episodi riservata ai dialoghi, alla fotografia scadente, agli inverosimili coup de théâtre e all’uso di flashback color seppia (funzionali alla sola finzione narrativa), c’è da chiedersi se valesse la pena di trascinare uno dei personaggi meglio riusciti della tv per così tante stagioni. Al punto che, dopo aver assistito all’ultimo episodio, la sensazione definitiva è che gli sceneggiatori abbiano ucciso Dexter mantenendolo in vita così a lungo. E con lui l’interesse che lo legava indissolubilmente ai suoi fan.

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