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Musica

In concert!

Caro Springsteen torna quando vuoi: San Siro è tutto per te

Il ritorno a Milano a solo un anno di distanza dal precedente concerto aveva fatto temere al nostro Brother Giober un tentativo di raschiare il barile da parte del Boss. Ma si è subito ricreduto: ma che calcolo... Lui è tutt’uno col pubblico, si alimentano a vicenda, si completano.

BRUCE SPRINGSTEEN

MILANO – STADIO MEAZZA

3 GIUGNO 2013

Votazione: ****1/2

Dopo un anno (quasi) esatto eccomi a scrivere nuovamente del Boss e di un suo concerto.

Mi ero ripromesso di non farlo questa volta, temevo di ripetermi e così mi sono presentato all’evento senza nulla con cui e su cui scrivere.

Poi, al sesto brano, mi sono reso conto che quello a cui stavo assistendo era ancora una volta speciale e che meritava di essere raccontato e quindi ho acceso il mio blackberry e ho appuntato tutto quanto mi è stato permesso dall’imbrunire, dalla gente che avevo attorno e dalla voglia di godermi il concerto senza altri pensieri.

Ma facciamo un passo indietro.

Il giorno in cui mi hanno avvisato che il Boss sarebbe tornato in Italia ho storto il naso sospettando che l’iniziativa fosse un modo per “raschiare il barile”. In fin dei conti dall’ultimo concerto era passato neppure un anno, nel frattempo nessun disco nuovo era stato prodotto, per cui mi chiedevo il perché di una scelta simile, rammaricandomi del fatto che la maggiore frequentazione sul suolo italico avrebbe fatto venir meno quella caratteristica di evento che aveva contraddistinto ogni performance del Boss.

Ho comprato comunque i biglietti, anche quelli del concerto di Napoli (cui poi non ho potuto partecipare), perché mai avevo perso un suo concerto in Italia e volevo mantenere il record immacolato.

E così eccomi, lunedì 3 giugno alle 17 al piazzale della Malpensata pronto a salire su un pulmino.

Siamo in 16. Molti di noi sono “post”: post giovani, post sessantottini (in realtà siamo troppo giovani aver fatto il ’68, ma nell’animo un po’ lo siamo rimasti tutti), post illusi, post sognatori, post tutto.

Di bello è che con noi ci sono anche i nostri figli. Miracolosamente il Boss rappresenta l’anello di congiunzione di generazioni che a volte non si incontrano o che per farlo necessitano di occasioni come questa. Duro a dirsi ma è cosi.

Io sono con Matteo, mio figlio cresciuto a dismisura; so che di questo non frega niente a nessuno, ma per me è importante quindi spero mi perdonerete se ho fatto un accenno alla mia vita personale.

Il viaggio di andata è divertente: la “prima “ non entra mai e l’autista ci dice che già nel ’74 (???!!!!) trasportò qualcuno a un concerto del Boss: ci guardiamo negli occhi, un po’ preoccupati, ma alla fine arriviamo in perfetto orario: oddio, doppie file, semafori gialli per il nostro conducente sono un optional tanto che a un certo punto pensiamo tutti che questo sarà il nostro ultimo viaggio verso Bruce, ma alla fine arriviamo sani e salvi.

Sono le 19, qualche nuvola nel cielo ma senza alcuna minaccia di pioggia: noi nel prato, come sempre.

Nell’aria la solita elettricità, voci di corridoio ci informano che il concerto inizierà alle 20 e che il Boss proporrà tutto Born in the Usa. Peccato – penso – considerando che nella data precedente ci ha proposto Born to Run. Ma mi consolo pensando che sarebbe peggio se rifacesse Tunnel of Love.

Un sms di una persona a me particolarmente cara mi augura buon concerto e così con dieci minuti di ritardo, anticipato dalle note solenni di Ennio Morricone, sale sul palco la E Street Band, integrata e rafforzata dai componenti di un coro tecnicamente mostruoso, da una sezione fiati composta da cinque membri tra cui Jake Clemons, dal tastierista Charles Giordano, proveniente dalle Seeger Session e da SoozieTyrrel, che però, forse, andrebbe considerata a tutti gli effetti una componente stabile della band.

Mi colpisce la figura di Jake Clemons, cha ha il fare del divo, e una disinvoltura che è di pochi: appena affacciato sul palco si ferma, guarda spavaldo il pubblico e saluta.

Arrivano poi i componenti storici della band, quelli rimasti: Max Weinberg , RoyBittan, “Miami” Steven van Zandt (Little Steven), Nils Lofgren, GarryTallent; manca solo Patti Scialfa, ma francamente non me ne farò un problema.

Sono tutti vestiti di scuro.

In fondo, per ultimo, lui: the Boss, pure in mise nera con jeans attillati che più non si può (beh un po’ di invidia c’è, visti gli apprezzamenti del pubblico femminile lì vicino a me).

Neanche il tempo di alzare le mani e applaudire che parte Land of Hope and Dreams, oramai un classico; Matteo mi chiede quale canzone sia: con voce strozzata (già) dall’emozione glielo dico. Poi, senza alcuna soluzione di continuità, seguono, My Love Will Not Let You Down, Out in the Street: il rito si sta consumando, ogni canzone è preceduta dal coro del pubblico, tanto che si fa fatica dalle prime note a riconoscere il brano; poi per incanto il coro si aggiusta, imbrocca la melodia e via il “singalong” caratteristico dei concerti del Boss.

Le braccia sono tutte in alto, Bruce è sempre quello: sorride, si concede, comincio ad avere qualche sospetto circa i motivi della sua decisione di tornare dopo così poco tempo a Milano.

Dalle prime file iniziano ad apparire i primi cartelli con le richieste di titoli: come da copione il Boss ne prende qualcuno a caso indicando alla E Street che il prossimo brano sarà American Land.

E tutti i presenti sul palco danno il massimo, SuzieTyrrel: la violinista, che a volte si alterna alla chitarra acustica, balla forsennata nonostante un fisico non proprio atletico; sul finire del brano interviene il coro, woohoow: voci straordinarie, gospel, che danno al brano uno spessore e una profondità fuori dal comune.

È la volta di Good Golly Miss Molly, una cover di Little Richard, un brano che tutti conoscono e che serve a scaldare ulteriormente il pubblico (semmai ce ne fosse bisogno); sempre a richiesta del pubblico parte una bella versione di Loose Ends.

Wrecking Ball, uno dei brani da me prediletti dell’ultimo disco, è più scarna del solito: l’ “intro” è acustico e tutti i componenti del gruppo battono a tempo le mani. Il suono non è limpido come dovrebbe ma la resa è comunque buona e nel finale la celebrazione ha luogo con tutto il pubblico che applaude e canta.  

Finora mi ha entusiasmato Max Weinberg, veramente pazzesco nel suo drumming preciso, vigoroso efficace ed essenziale, con lo sguardo fisso in avanti, quasi in trance, concentrato. Pare in una forma fisica ancor migliore di quella del Boss stesso. Ho deciso che se rinasco voglio essere LUI.

Nils Lofgren veste un cappellaccio e porta i basettoni, sembra uno uscito da una fiaba o, quanto meno, venuto da un altro mondo. Dopo una bella versione di Death To My Hometown, oramai un caposaldo dei concerti che permette a tutta la band di rifiatare, ecco arrivare Atlantic City, da Nebraska. L’intro è solo di Bruce e Max, sino al refrain ascoltato migliaia di volte. È lì che entra tutta la band e il suono diventa maestoso. Il pubblico è con le mani alzate, la versione è lunga ed emozionante, il finale ha le sfumature del gospel grazie all’intervento del coro.

Nel silenzio, all’improvviso, il suono di un’armonica, riconoscibilissimo. Il boato della folla accoglie The River e tutti cantiamo insieme a Bruce che a un certo punto ci lascia soli con il microfono puntato, per poi riprendere in mano la melodia, sino al ritornello immortale. Le luci dei cellulari illuminano il “Meazza” e una leggera brezza sale. Una coreografia migliore non ci potrebbe essere. Un urlo finale saluta l’ultimo soffio di armonica, la telecamera riprende le prime file e proietta immagini di ragazze con le gote rigate dalle lacrime, visi emozionati.

Matteo mi abbraccia. Grande Boss, anche per questo.

Si accendono le luci di colore bianco, il “Meazza” si illumina a giorno. L’applauso non è più frenetico, ma diventa rispettoso a non voler creare disturbo. Quando meno te lo aspetti il brano riparte, là dove era terminato, lo stadio oramai è ammutolito. Torna quando vuoi Boss… anche ogni mese.

Un attimo di pausa. Bruce poi dice: “La prima volta che suonai in Italia fu proprio qui a San Siro nel 1985, per il tour di Born in the USA, e per festeggiare questa sera eseguiremo tutte le canzoni di quell’album". Sono un po’ deluso, non è tra i miei prediletti, avrei preferito “Darkness”, "The River" , “The Wild” o "Born to Run", ma penso mi sarebbe potuto capitare di peggio e quindi guardo soddisfatto Matteo.

Le telecamere riprendono ancora le prime fila: c’è una signora di settant’anni con la bandana, ci sono persone della mia età, ragazzi, qualche bimbo in groppa al genitore.

Tutte le professioni sono rappresentate: quella degli architetti, degli avvocati, degli impiegati, dei banchieri, dei commercialisti, dei notai, degli imprenditori e dei cassaintegrati che hanno fatto fior di sacrifici per essere qui (vi chiederete come ho fatto a riconoscere le diverse categorie: boh, ma ho una certa esperienza al riguardo).

Parte Born in the USA: la versione è grintosa, intorno a me tutti intonano il ritornello, tutti stonano, se ne rendono conto ma è bello anche così (se dura poco).

Matteo mi invita ad alzare le mani, a lasciarmi andare: probabilmente mi considera in questo momento un po’ vecchio, troppo compassato, ma non sa che quando era ancora nella pancia della mamma era in prima fila a un concerto dei Los Lobos a Lucca, grazie al sottoscritto. Il finale è pirotecnico con Max Weinberg che picchia come un ossesso ma senza mai sbagliare una battuta.

Seguono tutte le canzoni dell’album, da Cover me che faccio fatica a riconoscere all’inizio (cribbio! sono passati quasi trent’anni). Questa volta mi concentro sulla figura di Bruce che ha sempre gli occhi socchiusi tesi in uno sforzo che non mi sembra solo fisico.

Springsteen scende tra il pubblico, tutti cercano di abbracciarlo, ma tutti hanno grande rispetto, non c’è bisogno del servizio d’ordine. 

Parte un assolo di sax, Bruce duetta con Nils, oltre il pubblico anche tutti i presenti sul palco sembrano sinceramente divertiti. Forse il segreto sta tutto qui. La sezione fiati è veramente pazzesca, sono tutti meravigliosamente bravi.

Seguono Darlington Country e poi Working on the Highway, mi rendo conto che sino ad ora grande spazio è stata data alla sezione fiati e in particolare a Jake Clemons che è vero che ha qualche movenza un po’ troppo glamour rispetto a quella umile di tutti i presenti sul palco, ma anche capacità tecniche e soul fuori dal comune.

Vicino al palco una ragazza sulle spalle di un amico lancia a Bruce dei baci muovendo in avanti entrambe le braccia con un fare ritmico e alternato. L’abbordo non riesce, ma Bruce sembra divertito.

Downbound Train permette a tutti di tirare il fiato ed è bellissima quando è fatta solo grazie alla voce di Bruce e a un sottofondo di tastiere .

I’m on Fire è bella e suggestiva come al solito: due persone vicino a me si abbracciano, convinte. Matteo batte a ritmo le sue mani sulle mie spalle: peccato abbia due arti che sembrano due pinne e due braccia da wrestler, ma ammicco e fingo felicità nascondendo il dolore.

Bruce ancheggia e ammicca tradendo un po’ la sua figura di rude uomo americano.

Riprende il ritmo e parte No Surrender: in prima fila, sul palco, c’è Suzie Tyrrel e si vede che la sua autorevolezza in seno alla band sta crescendo, poi Bobby Jean, e, soprattutto, I’m Going Down: il palco è irradiato da luci blu, tutti battono le mani ritmicamente, un assolo di sax meno convincente che in altri passaggi del concerto suggella comunque un brano riuscito meglio rispetto alla versione di studio. La canzone ha stop e ripartenze a verso la fine c’è un altro assolo di sax, questa volta ben congegnato ed eseguito.

È la volta di Glory Days, Miami si avvicina a Bruce dando l’avvio a un simpatico siparietto. La mia sensazione è che Little Steven sia un po’ bollito e anche un po’ ridicolo con quella bandana che dovrebbe nascondere la calvizie oramai totale. Probabilmente se non fosse per la riconoscenza e l’affetto che Bruce gli porta stasera sarebbe altrove. Ma resta comunque un bravo e fedele compagno di avventure.

Dancing in the Dark è accolta all’unisono dal pubblico. Qualche settimana fa l’ho etichettata come un incidente di percorso di Bruce ma, nella realtà dal vivo, funziona a meraviglia.

C’è anche spazio per il solito “quadretto”: questa volta le ragazze con cui Bruce balla sono due mentre una terza viene invitata sul palco e le viene consegnata una chitarra acustica tra le braccia. Incredula accenna qualche nota, incoraggiata dallo sguardo rassicurante e dal sorriso di Bruce; non riesco ad immaginare cosa possa avere nel cuore, a cosa possa pensare, all’emozione che sta provando.

La rappresentazione di Born in the USA si esaurisce con My Hometown, bella, semplice e suggestiva.

Si riparte: ecco quindi Shakled and Drawn da Wrecking Ball: l’ “intro” è di percussioni sulle quali Bruce si lancia in un botta e risposta con il pubblico. Le luci diventano rosse creando un bell’effetto, uno splendido coro, ancora di intonazione gospel contrappunta alcuni passaggi del brano. Questa volta Bruce duetta con una delle coriste che ci dà dimostrazione dei motivi per cui questa sera si trova sul palco e non in qualche talentshow.

Guardo ancora Jake Clemons: monta un paio di occhiali che gli danno un aspetto professorale che contrasta con una capigliatura che sa tanto di Bronx; ma è proprio bravo e Bruce ogni volta che può gli dà spazio.

Anche Waitin’ for a Sunny Day, come “Dancing” vive dello stesso siparietto dell’altro anno con la solita bimba (che a me è sembrata sempre la stessa) che intona, sola sul palco, il ritornello, con voce perfettamente intonata. Ma l’effetto al di là della furbata è bello e simpatico e il brano induce a ogni più sfrenato ottimismo, nonostante il periodo.

Parte The Rising, bella come al solito, maestosa, interrotta solo dal coro del pubblico che aggiunge un pizzico di leggerezza.

Distolgo lo sguardo dal palco mi volto e il colpo d’occhio è veramente impressionante: gli spalti sono gremiti sino agli anelli posti più in alto. Ho saputo che sono presenti più di sessantamila persone. Mi domando in quanti abbiano accettato di buon grado il sacrificio economico del biglietto per essere qui.

Accolta da un ampio cenno di soddisfazione di Matteo ecco arrivare Badlands, un classicone: tutta la sezione fiati ha un charleston in mano e batte il ritmo a tempo. Invocato da Lofgren, il pubblico fa tutto quello che può, cantando a squarciagola.

Finalmente sento distintamente il piano del “professore” fino a questo momento un po’ in ombra.

Il finale è pirotecnico e lasciato alla fantasia e alla tecnica di Max Weinberg. Accolto dal solito urlo liberatorio e dal coro del pubblico ecco Hungry Heart, bella, allegra come al solito. Una bella botta di energia, un brano, nonostante la sua leggerezza, amato da tutti i fans anche da quelli della prima ora.

Verso la fine il solito solo di sax che mi sembra abbia l’obiettivo di far rifiatare tutta la band.

Questa volta osservo Garry Tallent, gli anni sul suo viso si vedono tutti e anche un po’ di sofferenza. Guardo l’orologio e penso che sono più di tre ore che stanno suonando e che ogni musicista sul palco deve avere un fisico bestiale, allenato, altrimenti non sarebbe in grado di sopportare una simile fatica.

Bruce accenna a uscire, ma il pubblico lo chiama come se avesse paura che non faccia i bis.

E invece si: We are Alive è preceduta dall’intro di This Land is Your Land. Questa volta Jake Clemons imbraccia il tamburo e con capacità scenografiche rilevanti accompagna tutto il brano. Il coro finale produce brividi veri che nulla hanno a che vedere con la temperatura.

Parte Born to Run, sullo schermo in sottofondo viene reso omaggio a Clarence Clemons e a Danny Federici. L’esecuzione non è perfetta, il suono è a volte confuso ma quando Max “rulla” tutto passa e tutto si dimentica. I presenti cantano, all’unisono. È come tutte le generazioni si incontrassero, come se tutte le barriere di ceto e di censo non esistessero più.

Il mio vicino che non ho mai incontrato prima d’ora è il mio miglior amico: è bastato uno sguardo.

Ecco arrivare il ritmo saltellante di Tenth Avenue Freeze Out che dal vivo, secondo me, ha una resa ancor maggiore che su disco: tutti ballano e tutti cantano, il suono Staxnon è mai stato così vicino.

Il concerto prosegue con due hits del passato: Twist and Shout (dei Beatles o se preferite in una versione più vicina alla cover dei Top Notes) con coda affidata a La Bamba e Shout (degli Isley Brothers) sigla qualche anno fa di una trasmissione trash su Italia 1.

La band lascia il palco e saluta, forse siamo alla fine.

Invece no.

Bruce rimane sul palco, imbraccia l’acustica e parte una versione memorabile di Thunder Road cantata da tutto il pubblico.

Le telecamere inquadrano il pubblico sotto il palco, tante facce emozionate, molte lacrime, tutte con lo sguardo fisso, verso il Boss. Ci ha tutti in pugno ma non ne approfitta, non coglie l’occasione per diventare divo. Resta uno di noi.

Alla fine parte la musica registrata: ogni dubbio che il concerto possa continuare è fugato.

Usciamo ordinatamente, emozionati e commossi.

Con Matteo basta uno sguardo, di complicità. È stato un grande concerto, forse ancor più bello di quello dell’altr’anno.

Alla fine credo di aver capito perché Bruce sia tornato così presto senza aver nulla di nuovo da promuovere: non per bieco calcolo economico, non per mancanza di alternative, non per “raschiare il fondo del barile”. Lui è tutt’uno con il suo pubblico. Il suo pubblico ha bisogno di lui così come lui ha bisogno del suo pubblico: si alimentano a vicenda, si completano.

È per questo che ogni concerto sembra nuovo, diverso dal precedente e più bello: perché Bruce ci mette l’anima e così tutti i suoi musicisti, si concedono, totalmente e il pubblico anche, in segno di ringraziamento.

Torna quando vuoi,  Boss, anche tutte le settimane

Setlist

Land of Hope and Dreams

My Love Will

Not Let You Down

Out in the Street

American Land (richiestadal pubblico)

Good Golly Miss Molly (cover di Little Richard richiesta dal pubblico)

Loose Ends (richiesta dal pubblico)

Wrecking Ball

Death to my Hometown

Atlantic City

The River

Born in the USA

Cover Me

Darlington Country

Working on the Highway

Downbound Train

I’m on Fire

No Surrender

Bobby Jean

I’m Going Down

Glory Days

Dancing in the Dark

My Hometown

Shakled and Drawn

Waitin’ on a Sunny day

The Rising

Badlands

Hungry Heart

Encores

We are alive (con intro di “This Land is Your Land)

Born to Run

Tenth Avenue Freeze Out

Twist and Shout (cover dei Beatles )

Shout (cover degli Isley Brothers)

Encores 2

Thunder Road (acoustic)

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