di Marco Cimmino
Immaginare Bergamo senza alpini è quasi impossibile: sarebbe come immaginarla senza il Campanone o la polenta. Tra gli alpini e Bergamo c’è un legame che è più profondo del semplice dato di fatto, che ci dice che la sezione Ana orobica è la più numerosa d’Italia: i Bergamaschi l’alpinità ce l’hanno nel passo e nelle parole e nel modo di strologare il tempo, ogni valle alla sua maniera, guardando se le nuvole vengono dal Resegone, dall’Arera o dal Menna. Insieme a Belluno, a Udine, a Cuneo, all’Aquila, la nostra città è alpina quasi per antonomasia: sulla mimetica degli artiglieri da montagna del "Bergamo", onore unico nell’esercito italiano, c’è lo stemma con l’aquila che porta tra gli artigli l’obice, e sotto c’è scritto "Berghem de sass". E per i Bergamaschi, o, perlomeno, per quelli che ancora credono a certi valori, quello è diventato il motto, l’impresa e una promessa.
Abbiamo dato il nome, in tempi meno calamitosi per le truppe alpine, perfino a una brigata, l’Orobica, che aveva per stemma quello della nostra provincia. Ad ogni adunata, i veci dell’Orobica li riconosci al volo: la balla verde dell’Edolo, la balla bianca del Morbegno, la balla rossa del Tirano. Erano altri tempi: in val Venosta e in val Passiria, per le strade di Merano e di Vipiteno, sembrava di essere a San Giovanni Bianco, se chiudevi gli occhi e ascoltavi quelle voci, che strempiavano o borbottavano nel buon vecchio accento di casa tua. Adesso è tutto andato: Kaputt. L’Orobica, le caserme di Merano, i nostri battaglioni. Ma gli alpini no: gli alpini restano. Sempre più anzianotti, con meno capelli e con qualche buco in più alla cintura, gli alpini tengono duro: a Piacenza, sfileranno a centinaia di migliaia, proprio come dicessero "Ohè, guardate che non siamo ancora giubilabili!". Portano con sè, nello zaino o nelle tasche, che, da bravi montagnini, hanno capienti come borse, da metterci da bere, da fumare e da mangiare, centoquarant’anni di ricordi, di storie, di aneddoti e di cante, che sarebbero poi il modo di noi alpini di far finta che i nostri morti non siano, in fondo, morti per davvero. I morti di Adua e del Mrzli, quelli di Cheren e di Montelungo, e i morti della Russia, che a passarli in rassegna tutti, il general Cantore ci mette una mezza mattinata. Questo, forse, è il modo migliore di descrivere noi alpini: siamo gente normalissima, magari a volte perfino un tantino gnucca. Però, quando ci calchiamo in testa quel cappello con la penna, ci sentiamo migliori, più forti, più coraggiosi, più belli perfino. Perchè sappiamo che quel cappello è lo stesso dei nostri nonni e dei nostri padri e che ce lo porteremo sulla bara, come ce lo siamo portati sulle montagne: e i nostri morti, ogni volta che sfiliamo, sfilano con noi. Senza braveria o esibizionismi: come se facessero due passi coi vecchi amici. Ecco, questo e molto altro sono gli alpini: di pianura di valle e di città, tutti alpini bergamaschi.
Un po’ alla volta, cercherò di raccontarveli in questa rubrica, con le loro storie, i loro eroi e i loro inevitabili difetti. Ma non aspettatevi niente di straordinario: sono un alpino, io, mica un bersagliere…
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