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Quell’ultimo giro di valzer di un’epoca irripetibile nella musica americana

Un addio in grande grande stile quello di The Band nel 1976: "The Last Waltz", un disco e un film (firmato Martin Scorsese). E una parata di big a salutare gli amici musicisti: Bob Dylan, Van Morrison, Joni Mitchell, Neil Young....Indimenticabile. Parola di Brother Giober.

Giudizio:

* Camera iperbarica

** indispensabili massicce dosi di vitamine ed esercizio fisico

*** necessario solo qualche ritocco di chirurgia estetica

**** in perfetta forma

***** Cocoon!

 

ARTISTA : The Band

TITOLO: The Last Waltz

GIUDIZIO: *****

Il 25 novembre 1976, giorno del Ringraziamento, al Winterland di San Francisco, in uno scenario cinematografico fatto di stucchi, tendaggi e candelabri venne celebrato l’epitaffio di uno dei più importanti gruppi della musica rock di tutti i tempi: The Band.

Quel giorno Rick Danko, Richard Manuel, Levon Helm, Garth Hudson, Richard Manuel e Robbie Robertson ebbero il coraggio di dire basta ad una carriera al culmine del successo.

Lo fecero non si sa bene per quale ragione: non per litigi interni, non a causa di mogli/compagne avvelenate dall’invidia, forse per la droga e l’alcol che avevano annientato alcuni di loro, forse perché consapevoli che un’epoca si era irrimediabilmente conclusa, quella del sogno americano, quella di una generazione che si era illusa che tutto potesse cambiare solo con l’amore.

Forse solo perché certe vette artistiche toccate con Music from Big Pink o Rock of Ages non sarebbero state più raggiunte. Forse solo per stanchezza.

Quindi meglio finirla ora, quando sei ancora all’apice, quando tutti ti adorano, quando rappresenti ancora un’icona incontaminata. Certo non è facile…….

E così, nello stesso teatro dove sette anni prima tennero il primo concerto con il nome The Band, vengono chiamati a raccolta, a celebrare il mito, alcuni dei più rappresentativi artisti dell’epoca.

Ed è pura emozione vedere sul palco, in piena forma, Bob Dylan che alla Band deve molto, avendolo accompagnato (per mano) quando decise di dare una svolta elettrica alla sua musica e di virare verso il rock.

E che dire di una splendida, eterea Joni Mitchell, protagonista dei sogni di noi brufolosi sedicenni già alla ricerca dell’amore della vita.

Per non parlare del grandissimo Van Morrison, con la sua voce straordinaria e con una presenza scenica che forse non sarà più negli anni a venire così comunicativa.

Ma è emozionante anche Neil Young, non ancora consumato dagli anni che passano e colpisce la figura imponente di Muddy Waters con quel faccione così felice che sembra ringraziarti in ogni secondo della sua performance perché è lì.

Per celebrare il tutto Robbie Robertson chiamò un grande regista di allora (e anche di oggi): Martin Scorsese che veniva dal successo, prima di Mean Streets, e poi di Taxi Driver. Martin Scorsese che viveva all’epoca un difficile rapporto con il successo, la notorietà e che aveva deciso di venire a vivere in Italia e girare un film (mi pare su qualche santo, non ricordo bene, Pap sicuramente mi può venire in aiuto) e per il quale The Last Waltz rappresentò forse la salvezza.

E così ancor prima che sia definito il budget, il regista fa allestire il Winterland con grandi lampadari e arazzi rossi, posiziona le telecamere in modo che le diverse angolazioni producano differenti effetti di luce e poi decide di inframmezzare le riprese del concerto con le interviste ai protagonisti e con alcune registrazioni in studio come una strepitosa, ma veramente strepitosa, versione di The Weight degli Staples Singers.

Così è possibile ascoltare i protagonisti del concerto, parlare di sé, dei propri sogni, degli anni 60,di Woodstock, e il film non è più solo un semplice resoconto di un concerto ma diventa testamento di un epoca che, complice anche il sopraggiungere del punk e della New Wave ormai è terminata.

Nonostante il cast stellare, tuttavia i protagonisti veri sono ancora loro. Ossia The Band, nel concerto impegnati a riproporre alcune delle loro hit più note: Up on Cripple Creek è bella, incalzante, ritmata, funky, con un intreccio meraviglioso delle voci, magiche come lo saranno forse solo quelle di CSN&Y mentre Stagefright diventa una sorta di inno, con l’organo impazzito di Garth Hudson che vaga ovunque e sembra inafferrabile.

E che dire di It Makes No Difference, tanto bella da procurarti fastidio quando cerchi di cantarne la melodia, così perfetta da sembrare irreale, sino a quando l’assolo meraviglioso di sax posto a metà del brano ti stende definitivamente sena alcuna possibilità che tu possa riprenderti.

Certo non poteva neppure mancare The Night They Drove Old Dixie Down l’inno per eccellenza, accolto da un boato della folla e ulteriormente abbellito da un orchestrazione più ricca di quella solita. E quando arriva il refrain è una liberazione perché anche tu che stai ascoltando lo canti a squarciagola e non puoi farne a meno visto che è uno dei più bei ritornelli mai ascoltati.

Anche Life is a Carnival, un brano che non amo moltissimo, è qui reso in una versione spettacolare, con un suono perfetto e un amalgama delle voci straordinario. E vedendoli sul palco e nelle scene di vita quotidiana riportate nel film così affiatati è lecito chiedersi ancora perché un gruppo di persone come queste, all’apice della forma, dell’ispirazione, del successo abbia deciso di dire basta. La risposta la dà lo stesso Robertson, non so fino a che punto sincera: perché “a un certo punto i numeri cominciano a fare paura, non potrei vivere con vent’anni on the road sulle spalle”.  

Il palco quella sera è un crogiuolo di persone che vanno e vengono. Ognuno ha la voglia di partecipare, di testimoniare la sua esistenza proprio lì quella sera, a significare un’affinità che non è solo musicale, per condividere quella che sarà considerata una pagina fondamentale della saga della canzone popolare americana.

E così ecco il mitico Bob, messo meglio del solito, tirato, nervoso, scattante che non poteva mancare. In fin dei conti The Band è stato il suo gruppo in tour indimenticabili, ha valorizzato la sua musica, è stato per lui quello che la E Street è stata per Bruce o gli Heartbreakers per Tom Petty. Eccolo quindi accolto dal boato della folla e presentato con grande solennità attaccare una memorabile versione di Baby let me Follow You Down, elettrica, nervosa, tiratissima, con quella voce centrata come non mai che urla le strofe più che cantarle. Lo vedi e senti duettare con Robbie Robertson e ti pare che siano una persona sola mentre sotto Garth Hudson crea un meraviglioso tappeto sonoro con le sue tastiere.

Non fai a tempo a tempo a riprenderti ed ecco partire, meravigliosa, I Don’t Believe You, una grande ballata, maestosa, con un lavoro pazzesco delle chitarre e il solito organo di Hudson a fare la differenza.

Tempo di accordare la chitarra e parte Forever Young, un pugno allo stomaco per i nostalgici. Cantata con voce meno sicura del solito resta un inno e questa sera forse non è stata scelta a caso. Voglia di restare, di non andarsene o forse solo consapevolezza che quello che è stato rimarrà a dispetto del trascorrere del tempo. Emozionante.

Ma non è tutto. Perché se ascolti Joni Mitchell che inneggia la sua Coyote, embrione della sua svolta jazz, non puoi rimanere insensibile al fascino di un brano etereo, cantato con una grazia insuperabile da una donna che è classe allo stato puro.

E certo vedere Neil Young strafatto non fa bene a chi gli vuole bene, ma la sua Helpless è quanto di più sofferto si possa ascoltare, il pathos è al massimo ed è veramente complicato non riuscire ad emozionarsi, soprattutto quando le prime note dell’armonica iniziano a volare verso l’alto.

Ma probabilmente il meglio deve ancora venire perché adesso tocca al vecchio leone irlandese, Mr Van Morrison: Tura Lura Lural è solo un assaggio. Un blues memorabile, cantato con anima, scandito, con chitarre e organo in grande spolvero, fino all’entrata dei fiati. Ma poi ci sia alza tutti in piedi e si balla, perché è impossibile stare fermi, quando il ritmo, il soul sono di questa qualità e la voce è quanto di meglio si riesca ad ascoltare in giro.

Una versione memorabile di Caravan una delle migliori di sempre marchia indelebilmente tutto il disco.  

C’è posto anche per Slowhand, la sua Further On Up the Road ha un groove pazzesco, le dita scorrono fluide sul manico della chitarra. Un grande performance degna del contesto dove Clapton fa capire, ancora una volta, perché è una leggenda.

E poi arriva anche il suo maestro: Muddy Waters e il suo vocione che ci regala un’epica versione di Mannish Boy, monumentale, trascinante, leggendaria.

Ancora da segnalare c’è la versione meravigliosa degli Staples Singers di The Weight registrata in studio. Il brano lo conoscete tutti e sapete quanto sia bello. Metteteci delle voci straordinarie come quelle degli Staples Singers e, se non l’avete ancora ascoltato, immaginate che razza di pezzo può uscire.

Chiudo qui, non prima di avervi ricordato che nel prezioso cofanetto vi sono anche altri brani da me non menzionati e che in una riedizione della Rhino potrete trovare ulteriori tracks e la registrazione integrale del concerto.

Ad ogni modo un grande disco, emozionante, la testimonianza fedele di un’epopea musicale che nasce a Woodstock e termina con l’avvento dei Sex Pistols.

Cinque stelle, al disco e al film.

Se proprio non si vuole ascoltare tutto il disco:

It makes no Difference

Albero genealogico:

Figli, figliocci, adozioni:

AA.VV : Love for Levon

Fratelli:

AA.VV : No Nukes

Genitori :

AA.VV : Woodstock OST

AA.VV: Isle of Wight OST

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