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L'intervista

Albini: “Abbiamo investito in tempo di crisi, oggi veniamo premiati”

Silvio Albini, presidente dell'omonimo Gruppo, si racconta in una lunga intervista a Bgnews: nel periodo più duro della crisi ha avuto la forza e il coraggio di andare controcorrente, di investire e rafforzare la propria struttura industriale in Italia puntando su fattori di competitività diversi dal prezzo e su quegli elementi di eccellenza italiana che il mondo continua a ricercare.

Nel momento più duro della crisi ha avuto la forza e il coraggio di andare controcorrente, di investire e rafforzare la propria struttura industriale in Italia puntando su fattori di competitività quali innovazione di prodotto, alta qualità, servizio al cliente e su quegli elementi di eccellenza italiana che il mondo continua a ricercare: Silvio Albini, insieme a Fabio, Andrea e Stefano Albini, ha portato l’omonimo Cotonificio a recitare un ruolo da assoluto protagonista sui mercati internazionali grazie a produzioni di nicchia che sfruttano filati dal titolo medio tra i più alti al mondo.

Dottor Albini, se dovesse tracciare ora un bilancio dell’anno appena trascorso per il suo Cotonificio come lo giudicherebbe?

Considerando il periodo di difficoltà generale posso dire di essere abbastanza soddisfatto. Il fatturato, che si aggira attorno ai 125 milioni di euro, è cresciuto del 3,5% e anche i risultati economici sono migliori di quelli del 2011. È stato un anno faticoso e impegnativo e, devo ammetterlo, c’è stato un momento verso maggio o giugno in cui ho avuto un po’ di paura. Continuiamo a recuperare in termini di fatturato e risultati economici dopo le ingenti perdite del 2009.

Quali sono i fattori che hanno determinato tale ripresa?

La ripresa può essere imputata a vari fattori, ma siamo sopravvissuti, e in un certo senso pure cresciuti, grazie alla nostra forte presenza all’estero. Presenza diretta perché la quota export, cresciuta negli ultimi anni, va oltre il 70% e presenza indiretta perché il 30% che vendiamo in Italia poi viene a sua volta esportato per il 70-80%. La presenza nel mondo è fondamentale ma è un fattore che non si improvvisa da un momento all’altro.

Quali sono i principali sbocchi commerciali?

Noi esportiamo in 80 paesi diversi e i maggiori sono europei: Francia, Spagna, Inghilterra, Germania. Poi vengono gli Stati Uniti e la Cina. Nel mondo c’è una grande voglia di made in Italy e se noi come azienda, come settore tessile e anche come Paese riusciamo a capire e a proporre al mondo quelli che sono i veri valori del made in Italy, credo che di spazio ce ne sia molto.

Quando parla di veri valori del made in Italy cosa intende?

Parlo di innovazione di prodotto, qualità, servizio al cliente, buona immagine di noi stessi. Dobbiamo offrire quei valori di eccellenza che ci caratterizzano e che nel mondo sono molto richiesti ma proponendo un accettabile rapporto qualità-prezzo.

L’export nell’ultimo anno ha rallentato la sua crescita: è un dato che la preoccupa?

Non è facile continuare ad aumentare le esportazioni ma non abbiamo alternative: personalmente sono ancora fiducioso. Per un po’ sarà ancora l’export l’elemento trainante e non è bello che il mercato domestico sia così depresso. È drammatico che un Paese si basi quasi esclusivamente sulla tenuta o sulla crescita delle esportazioni. Per invertire la tendenza bisogna ricreare fiducia nei consumatori.

Torniamo alla crisi. Voi come l’avete affrontata?

Abbiamo operato sia in difesa che in attacco. Con grande amarezza abbiamo chiuso due stabilimenti, quello di Albiate e uno in Repubblica Ceca, e ridimensionato personale ma, allo stesso tempo, abbiamo attaccato con strumenti che ci hanno resi più efficienti, più vicini alle materie prime, più competitivi: in questo modo è iniziata la ripresa. Penso ai forti investimenti che hanno portato all’apertura del polo logistico di Gandino, nel cuore della valle a testimonianza di quanto sia importante per noi il territorio, e del polo produttivo in Egitto dove abbiamo trovato la migliore materia prima al mondo e abbiamo avviato una piccola ma qualificatissima produzione di cotone sodo a livelli altissimi. Ma anche quelli negli stabilimenti già esistenti perché quando in tanti hanno delocalizzato e portato avanti strategie di outsourcing la nostra scelta vincente è stata quella di rafforzare la struttura industriale in Italia.

Attualmente su quanti stabilimenti può contare il Gruppo Albini?

Complessivamente otto. Quello storico, ad Albino dal 1876; il polo logistico di Gandino; la tessitura di Mottola, in provincia di Taranto; il finissaggio a Brebbia in provincia di Varese e la nuova filatura di Ceto aperta nel 2012 all’interno di uno stabilimento di Niggeler & Kupfer dove abbiamo messo in atto un investimento importante per la produzione di filati greggi di cotone finissimi: una delle scelte controcorrente di cui parlavamo poco fa. Senza questa operazione la produzione di filati sarebbe finita in Paesi lontani e non più sotto il nostro controllo: noi però facciamo della qualità e del servizio elementi fondamentali del nostro vantaggio competitivo e controllare le materie prime è fondamentale. Fuori dall’Italia, infine, abbiamo uno stabilimento in Repubblica Ceca e due in Egitto.

La Val Seriana è stata fortemente penalizzata dalla crisi economica. Lei che valutazioni dà e quale futuro vede per quell’area?

La Val Seriana, in passato, ha basato lo sviluppo su produzioni abbastanza standardizzate e la competitività su quantità e prezzo. Questo modello è entrato in crisi quando paesi con costi più bassi hanno iniziato a produrre con successo gli stessi prodotti. Un’azienda come la nostra è sopravvissuta e si è sviluppata perché da un lato ha sempre investito tenendo fabbriche moderne e aggiornate, sfruttando ad esempio un rapporto solido e molto fecondo con il gruppo Itema, che è il nostro unico fornitore di telai, dall’altro ci siamo sforzati di spostare la concorrenza su elementi diversi dal prezzo. Questo è sempre stato il fil rouge dei miei 30 anni nel tessile. Ma la Val Seriana ha un dna manifatturiero da cui non può prescindere e che non deve essere assolutamente abbandonato. Anzi, va rilanciato.

Quest’anno è stato a Pitti Immagine Uomo da semplice visitatore. Quali sono state le sue impressioni?

L’impressione è che si sia andati meglio delle previsioni. Confrontandomi con gli espositori ho notato che chi esporta tanto, chi è in grado di attrarre i clienti internazionali e chi si è già fatto conoscere ha avuto buon successo, soprattutto chi opera nelle fasce più alte di lusso perché è una delle aree che tira di più. Chi invece è più rivolto al mercato domestico ha sofferto maggiormente.

Ha notato delle tendenze particolari? Come si vestirà l’uomo il prossimo autunno-inverno?

Mi sembra che ci sia grande attenzione ai dettagli e alle cose fatte bene, magari non appariscenti ma con grandi contenuti di qualità, sobrietà e rigorosità. Sarà un inverno fondamentalmente colorato, c’è un grande sforzo di rinnovamento del vestire classico, che non si butta via dopo sei mesi, perché è quello che richiede l’attuale situazione economica.

Di fronte a un giovane che vuole avviare un’attività o vuole entrare nel mondo del lavoro che consiglio darebbe?

Il mio consiglio è quello di prendere un aereo e di andare a vedere quello che succede nel mondo: in quest’ottica il nostro aeroporto è un’opportunità enorme. Poi è fondamentale entrare nel mondo del lavoro, ovviamente sono consapevole di tutte le difficoltà del caso: solo dall’interno si può iniziare a capire se la strada che si è iniziato a percorrere è quella giusta. I giovani devono imparare ad essere sempre curiosi e attivi in ogni situazione: posso assicurare che in azienda un atteggiamento positivo viene sempre apprezzato.

Chiudiamo parlando di Italia: abbiamo ancora bisogno di austerity o adesso è arrivato il momento dello sviluppo?

Abbiamo bisogno di tutte e due le cose: purtroppo abbiamo più di 30 anni di mala economia, di spese e deficit accumulati maggiori di quelli che ci potevamo permettere e non si può pensare di digerirli nel giro di un anno. L’austerità, nel senso di attenzione alle spese e nel senso di essere comunque più efficienti, è fondamentale e deve continuare; d’altra parte, però, occorre sicuramente anche lo sviluppo. Dobbiamo fare in modo che il paese sia competitivo: lo sviluppo viene se produciamo di più, esportiamo di più, lavoriamo di più.

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