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Musica

In concert!

Trascinante, estenuante: il Boss incanta più d’una generazione

Pensavate che Brother Giober si perdesse il concerto di Springsteen a San Siro? No, vero? Stavolta con lui, oltre agli amici di sempre, il figlio per un passaggio di testimone dell'evento e del musicista che più ama.

IN CONCERT! Cronaca a volte seria, a volte meno, di concerti di artisti noti e non

Giudizio: * alla terza canzone volevo andarmene

** era meglio andare al cinema

*** niente male!

**** bene, bravi, bis!

***** epocale!

 

Giorno: giovedì 7 giugno 2012

Luogo : Stadio Meazza, Milano

Artista: Bruce Springsteen and the E Street Band

Giudizio: ****1/2

Finalmente il grande giorno è arrivato! Sette giugno 2012, lo aspetto oramai da mesi e l’attesa si è fatta ancor più spasmodica, complice The Wrecking Ball, disco forse non perfetto ma sincero e, ad ogni modo, bello.

L’appuntamento è per le 17 in una via del centro, i biglietti, come ai vecchi tempi sono quelli del prato. Ad attendere me ed i miei amici, quelli di sempre, un bus a noleggio.

Il guidatore è un mio vecchio amico che ci guarda con molta curiosità e un po’ di, malcelata, commiserazione. È abituato ai nostri vestiti eleganti, o ritenuti tali, agli atteggiamenti seriosi.

Oggi ci vede sguaiati e liberi da ogni freno, allegri, leggeri come non è abituato.

I miei amici: quelli di sempre, quelli di una vita, quelli sinceri. Un evento di questo genere solo con loro si può condividere.

In più per la prima volta qualche parente: le mogli di due di noi, qualche figlio. Sopratutto il mio, che è molto meglio del padre. Anche lui mi guarda un po’ stranito, conosce il boss, gli piace ma non ha la mia stessa passione. Anzi ho dovuto insistere perché venisse, per cercare di fargli capire un po’ di me, perché se tanto hai amato una persona e se continui amarla, quella persona è in grado di spiegare molte cose di te, penso.

Ma Matteo non è del tutto convinto, crede che suo padre voglia fare a tutti i costi il giovane e forse è un po’ così, ma è incuriosito. Questa sera gli apparirò, se riuscirò ad essere sincero, in una veste nuova, diversa.

Il bus è comodo ed è un po’ il segnale dei tempi, nonostante la crisi: quando eravamo giovani stavamo in cinque a volte sei su una R5, senza aria condizionata; al termine del viaggio scendevamo in uno stato tale da non poter che stare in uno spazio aperto, molto aperto. Oggi abbiamo noleggiato un bus da 12 posti e siamo in 10, l’aria condizionata c’è ma non serve.

Il tempo sembra volgere al bello: per certi versi è un peccato, probabilmente non ascolteremo Who’ll Stop the rain.

Il viaggio ci aiuta a ricordare tutti i concerti visti nel passato, la prima volta a San Siro (quando si chiamava così), al Palatrussardi (quando si chiamava così), a teatro in versione acustica, l’ultima volta ancora al Meazza quando Bruce ha iniziato a cantare, appunto, Who’ll Stop the Rain.  

Dopo una lunga coda arriviamo nei pressi dello stadio alle 19 e 30 e c’e’ il tempo anche per un panino. Quando entriamo il Prato e’ già quasi tutto occupato mentre gli spalti ancora in larga parte sono vuoti.

Verso le 20, all’ora prevista per l’inizio dello show, i primi segni di impazienza del pubblico che inizia a chiamare l’artista , le prime mani che si alzano in cielo, le prime olà.

Verso le 20 e 40, quando l’attesa si e’ oramai fatta insopportabile, il suono di un piano e le note di un violino accolgono l’entrata della band.

Il colpo d’occhio e’ impressionante: 17 elementi. La prima linea e’ riservata da sinistra a destra a Soozie Tyrrel (violino e chitarra acustica), Nils Logfren (chitarra), Miami Steve van Zandt, un tempo Little Steven (chitarra), Gerry Tallent (basso), appena dietro Charles Giordano con le sue tastiere (orami componente fisso al posto del compianto Danny Federici), Max Weinberg ai tamburi, e professor Roy Bittan alle tastiere, dietro ancora, a sinistra una poderosa sezione di fiati (quattro componenti) tra cui Jake Clemmons, nipote di Big Man, e a destra tre coristi ed un percussionista.

Per ultimo arriva lui, vestito di scuro come tutti gli altri membri della band, come l’intero palco. Il concerto parte a razzo: We Take Care of our Own, uno dei brani più d’impatto di Wrecking Ball. Nessuna sorpresa, era il brano previsto. Immediatamente il pubblico inizia ad accompagnare Bruce in un botta e risposta per l’intera esibizione.

Appena il tempo di cambiare la chitarra e senza soluzione di continuità parte Wrecking Ball, anche qui come da copione. La versione dal vivo e’ più che buona, il pubblico fa la sua parte e così il ritornello e’ cantato all’unisono e i componenti del gruppo ad un certo punto dell’esibizione abbandonano gli strumenti e seguono il ritmo con il solo battito della mani.

Il primo boato al terzo brano, Badlands da Darkness on the Edge of Town, l’album del dolore dopo i fasti di Born to Run. La versione mantiene intatta la rabbia dell’originale di studio ed in mezzo un assolo di Jake Clemmons ci fa venire il sospetto che il ragazzo sia lì per meriti propri. Mi colpisce come al solito il lavoro di Max Weinberg spesso ripreso in primo piano dalla telecamera che guarda fisso i tamburi, quasi avesse il timore di sbagliare, cosa che non ha mai fatto in vita sua.

Noto anche che sono tre brani che il pubblico canta senza aver mai smesso un attimo. Ancora un repentino cambio di chitarra ed ecco Death to my Hometown con la tromba che disegna le linee della melodia principale e il pubblico che batte le mani a tempo. Charles Giordano lascia le tastiere e scende in prima fila imbracciando la fisarmonica.

Al termine del brano in un italiano più che buono Bruce si rivolge a noi tutti e ci chiede "come va?". Ci dice che la canzone che seguirà tratta delle cose che ci lasciano e di quelle che restano con noi per sempre. Il riferimento a Big Man e a Danny Federici pare a tutti ovvio e così parte una straordinaria versione di My City of Ruins, dove trombone e tromba assumono il comando delle operazioni, e il coro da’ un tocco gospel alla versione che e’ straordinaria.

La coda del brano da’ motivo al Boss di presentare i componenti della band. C’e spazio anche per Patti Scialfa, pur assente perché impegnata nell’accudire i figli ma "che ci saluta tutti".

Poi Bruce ci chiede "manca qualcuno?" e il richiamo a Big Man e a Danny Federici è inequivocabile , ma ci rasserena dicendoci "posso sentirli nelle vostre voci".

Sulle note dell’hammond, le mani del pubblico si protendono verso il cielo e ondeggiano. Bruce ci chiede "Can you feel the Spirit?" e così ci e’ ovvio che parta Spirit in the Night dal primo album, che rispetto alla versione originale manca dell’apporto solista del sax, forse un omaggio a Big Man.

La lunghezza del pezzo da’ modo a Bruce di scendere tra il pubblico, stringere le prime mani, accettare il dono di un pupazzo con la sua effigie da una ragazza delle prime file.

Penso agli anni trascorsi, la prima volta che ho sentito questo brano era il 1973 e l’80 per cento del pubblico non era neppure nato. Amen.

Dal secondo album ecco The E Street Shuffle, un poderoso Rhythm and blues rovinato un poco dalla acustica non perfetta. Ma la versione e’ trascinante, il ritmo alto ed i fiati creano un muro di suono impressionante. Il brano ha termine con un botta e risposta tra percussioni e batteria: mi sembra per un attimo di essere ad un concerto di Santana.

Il brano che segue viene introdotto da un discorso di Bruce che avvinghiato al microfono ci dice che questi sono stati anni difficili negli Stati Uniti, che molta gente ha perso casa e lavoro e che lo stesso e’ avvenuto in Italia. E che quella che eseguirà e’ una canzone dedicata a tutti quelli che stano lottando. Così parte Jack of All Trades che su disco non mi era piaciuta mentre dal vivo acquisisce un pathos che me la rende più interessante. La coreografia offerta dal pubblico che dà luce ai telefonini e illumina lo stadio fa il resto. La tromba e Little Steven duettano alla grande mentre la fine del brano e’ nelle dita di Nils Logfren. Spettacolare versione di un brano che non mi aveva, su disco, convinto.

Parte con il caratteristico suono dei piatti della batteria Candy’s Room da Darkness. Miami (che guardandolo bene mi sembra il fratello maggiore di Lino Banfi) e’ alla seconda voce, e francamente stona, ma e’ un particolare. Segue, senza interruzione alcuna, Darkness On The Edge of Town ed ecco il boato della folla. Molti si abbracciano, altri appoggiano le proprie braccia sule spalle del vicino.

Parte Johnny 99 e poi con il suo ritmo saltellante Out of the Streets con tutto il pubblico che canta e balla. Nelle prime file una ragazza che sta sulle spalle di uno spettatore richiama l’attenzione di Bruce che inizia a dialogare con lei a gesti. Finito il siparietto Bruce, come un forsennato, inizia a correre su e giù per il palco. Parte No Surrender da Born in the USA, il ritmo e’ tirato, ogni componente della band suona una percussione.

Segue Wreck on the Highway da The River, le luci illuminano lo stadio, la presenza massiccia di fiati da un nuovo smalto al brano. Il botta e risposta con il pubblico da modo a Bruce di introdurre Shackled and Drawn. Il suo procedere a mo’ di festa paesana contribuisce a rendere l’atmosfera ancor più gioiosa. Il finale e’ concesso ad una delle coriste che fornisce un’interpretazione da brividi.

Ecco di seguito Waitin’ on A Sunny Day allegra e spensierata come mai con la sezione fiati che a mo’ di vecchia band di Rhythm and Blues ondeggia a destra e a sinistra. Bruce scende nuovamente tra il pubblico, stringe la mani, prende in braccio una bimba la fa cantare, fa salire un altro bimbo sul palco e canta con lui. Entrambi avranno modo di raccontare quanto gli e’ successo per molti anni.

L’attacco di armonica e’ tra i più conosciuti: The promise Land, un altro pezzo di cuore che se ne va. Manco a dirlo il pubblico accompagna Bruce per tutto il brano.

Poi Bruce si mette al piano e offre una versione acustica e stravolta di Thunder Road, la mia preferita. E’ un altro brano ma non importa, l’effetto e’ comunque buono.

Ed ecco The River accolta dall’ennesimo boato. I telefonini si accendono, lo stadio e’ illuminato a giorno. I ragazzi davanti a me si abbracciano ancora una volta, neppure le stecche di Miami riescono a rovinare il brano. Il palco e’ illuminato di blu e di verde, l’effetto stupisce.

The Rising e’ resa in tutta la sua drammaticità e determinate e’ il contributo di Soozie Tyrrel e del suo violino. Parte a razzo Radio Nowhere, uno dei pochi brani dignitosi di Magic, con il suo ritmo tirato allo spasimo. La versione e’ trascinante anche se alcune sbavature si sentono qua’ e la’.

Introdotta da Bruce, accompagnato solo dalla sua chitarra, ecco I’m Alive da Wrecking Ball, che lascia subito spazio a Land of Hope and Dreams, in una versione trascinante ancor più che su disco.

Termina il brano, i musicisti lasciano gli strumenti e vengono verso il pubblico per i saluti. Ma senza farsi pregare troppo e dopo aver raccolto un cartello con scritta una richiesta partono i bis. Prima però Bruce ci spiega che il nostro e’ veramente un paese speciale e pare quasi voglia anticiparci la notizia di un regalo. E così e’: dopo Rocky Ground, il più bel pezzo, per me, dell’ultimo album ecco una sequenza da brividi:a Born in the USA, Born to Run, Cadillac Ranch, Hungry Heart e forse Bobby Jean (dico forse, perché’ in quel momento ho perso ogni controllo e faccio fatica a riconoscere ogni cosa) mentre invece riconosco Dancing in the Dark.

Una ragazza delle prime file alza un cartello con una scritta che indica la sua richiesta di poter ballare con Jake Clemmons. Bruce lo vede e la invita sul palco ed il ballo ha inizio. Mentre danza, Jake si esibisce in un “solo” di qualche minuto senza mai fermarsi; trovo la performance incredibile e penso che il ragazzo abbia dei numeri suoi.

Intanto Bruce balla con un altro bambino. Il clima e’ festoso, pensiamo che sia l’ultima canzone mente invece ecco Tenth Avenue Freeze Out, trascinante come non mai e tirata allo spasimo che lascia spazio ad una lunga versione più volte ripresa di Glory Days al termine della quale Bruce si accascia a terra e dal labiale e possibile leggere la frase "No More".

A questo punto Miami lo soccorre e gli getta addosso dell’acqua sprizzandola da una spugna. Bruce risorge e parte una versione irripetibile di Twist and Shout.

Stavolta e’ veramente la fine. Tre ore e mezza di concerto forse quattro.

Ce ne andiamo esausti ma totalmente felici e pensiamo che come lui non ci sia nessun altro. Lasciamo lo stadio per un ritorno fatto di interminabili code.

E Matteo? Ha incontrato nel Prato un suo amico e ha preferito vedere il concerto con lui. Il passaggio generazionale e’ rinviato. Giusto così, ad ognuno il suo Bruce.

Brother Giober

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