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Il primario del don orione

“Che ne sanno le Kessler dello stato vegetativo?”

Vi proponiamo un articolo pubblicato su Tempi, settimanale di Comune e Liberazione, in cui il primario del centro Don Orione di Bergamo commenta la decisione delle gemelle Kessler di “stringere un patto d’amore” qualora una delle due si trovasse a cadere in stato vegetativo.

Vi proponiamo un articolo pubblicato su Tempi, settimanale di Comune e Liberazione, in cui il primario del centro Don Orione di Bergamo, Giovanbattista Guizzetti, commenta la decisione delle gemelle Kessler di “stringere un patto d’amore” qualora una delle due si trovasse a cadere in stato vegetativo.

Le gemelle Kessler, le famose ballerine della tv spensierata degli anni Sessanta, nel numero di Chi in edicola questa settimana, raccontano di un patto tra loro, "un patto d’amore", che consisterebbe nello “staccare le macchine” qualora una delle due si trovasse a cadere in stato vegetativo. «Se una di noi si ridurrà allo stato vegetativo, l’altra l’aiuterà a uscire di scena». Ma L’amore fraterno e familiare, quello di sangue che non si riesce mai a dimenticare, a detta del primario del centro Don Orione di Bergamo, Giovanbattista Guizzetti, è un altro. Guizzetti lavora ogni giorno a stretto contatto con una trentina di persone in stato vegetativo: «Il più delle volte, quando si fa riferimento allo stato vegetativo, non si sa di cosa si stia parlando. Si pensa a persone trasformate in soprammobili inermi, e invece si tratta di imparare a capire il loro linguaggio, di avere un nuovo vocabolario per parlare con loro». Quando un nuovo malato arriva nella struttura bergamasca, non si tratta solo di dover accogliere lui, di prestare cure e assistenza sanitaria a lui, ma a tutta la famiglia. «Ci prendiamo carico di tutti e quindi ci sentiamo anche noi parte di quella famiglia che sta prendendo parte a un grande dolore. E con i parenti impariamo a riconoscere il loro nuovo modo di comunicare, che passa da un movimento impercettibile di una mano o di una palpebra. Una smorfia, che qualcuno taccerebbe come un tic, può essere invece una risposta a una domanda che si è fatta, a uno sguardo di affetto, un modo per manifestare uno stato d’animo, perché sì, mettiamocelo in testa, una persona in stato vegetativo prova sentimenti e emozioni esattamente come noi sani». Qualsiasi fosse il tipo di relazione che si aveva con la persona caduta in stato vegetativo non vale più. Bisogna ricominciare da capo, bisogna costruire un nuovo tipo di relazione, e non c’è tempo per stare a pensare a un elenco di cose che non si potranno più fare, perché il malato è lì, nel letto, e ha bisogno di tutto. «C’è Antonio, uno dei nostri ricoverati, che in questi giorni non sta bene. L’ho visto un mattino con un’espressione del tutto diversa sul volto, l’abbiamo notato sia io che gli infermieri. Allora ho chiamato in ospedale, per prenotare una radiografia all’addome, perché presumevo avesse un’occlusione intestinale. Dall’altra parte del telefono mi è stato chiesto, come avessi fatto ad accorgermi del suo malessere, visto che Antonio non è in condizione di parlare. L’ho semplicemente guardato in faccia, ho risposto». «Nessuno si augura che un familiare si possa trovare in quella condizione, ma bisogna reimparare ad amarlo, anche avendo coscienza del fatto che bisogna passare attraverso le cinque fasi di elaborazione del dolore». Ogni sabato all’istituto Don Orione vanno in visita un gruppo di donne di Brugherio, che per un paio d’ore fanno compagnia ai malati e alle loro famiglie. L’anno scorso, durante una riunione, una di loro ha detto che pensava che la condizioni di quei malati in stato vegetativo fosse di pienezza e di felicità. «Il giorno dopo la caposala mi ha fermata per chiedermi se fossi d’accordo con quella affermazione, che le sembrava priva di un appiglio con la realtà, ne era del tutto scandalizzata. Qualche giorno dopo un’infermiera portò una malata che aveva perso l’uso della parola in seguito a un trauma cranico, a fare degli esami, dei test per provare una cura nuova. Quello stesso giorno, la malata riprese l’uso della parola e la prima frase che disse all’infermiera fu “dite a mio marito che sono felice”. A dimostrazione che dentro quei corpi stesi nei letti e non più autosufficienti c’è vita, sentimenti e tutto quello che ci rende umani».

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