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Il discomane

I tesori nascosti della fragile Amy

Ricco di perle il disco postumo di Amy Winehouse: cala così il sipario sulla carriera di un’artista, che con due soli dischi ufficiali alle spalle, non si fatica a definire straordinaria.

ARTISTA: Amy Winehouse

TITOLO: Lioness: Hidden Treasures

GIUDIZIO: ***1/2

 

Amy Winehouse ci ha lasciato, il 23 luglio 2011, dopo una vita breve e tumultosa condotta nella peggior tradizione delle star della musica rock come Janis Joplin, Jim Morrison, Jimi Hendrix e John Belushi.

Come per i casi appena riferiti, ad Amy il destino o chi per esso, ha donato uno straordinario talento ma anche una fragilità che le ha impedito di affrontare la vita con il coraggio di tutte le persone che hanno la necessità di far fronte alle mille difficoltà quotidiane.

Amy, a un certo punto, era diventa una star planetaria e le pressioni sulle sua persona erano divenute inimmaginabili così come le conseguenze, come quando il capo dell’Ufficio contro il traffico di droga e il crimine presso le nazioni unite uscì a dire che il suo consumo di droga stava direttamente “causando un altro disastro in Africa” e i vari tabloid inglesi ne avevano fatto uno dei principali bersagli, amplificando a dismisura ogni suo gesto.

Così quando i giornali diedero la notizia della sua morte, in realtà un po’ tutti ce lo aspettavamo, i segnali erano stati convergenti, abusi di droga e alcol, ricoveri in cliniche per disintossicarsi, concerti interrotti nel loro bel mezzo, atti spesso incomprensibili, ci avevano dato la sensazione di un’artista che solo un miracolo avrebbe potuto salvare da una fine certa.

Tuttavia la sensazione è che Amy ci mancherà, più di quanto oggi paia e la prova sta proprio in questo disco postumo, probabilmente la solita furbata commerciale che darà luogo a beghe ereditarie e arricchirà la casa discografica. Ma questo ci interessa poco. Quello che invece importa è che ogni versione dei brani contenuti, che si tratti di cover, standards o inediti, è più che buona e la voce di Amy è sempre magica.

Ciò che più colpisce nel disco è la sua capacità di confrontarsi con i classici e di riuscire a dominare la materia senza esserne sopraffatta come se l’unica versione conosciuta fosse la sua, ma soprattutto come Amy abbia deciso di non accontentarsi di essere solo una grande interprete di jazz ma, rischiando, abbia progressivamente sporcato il proprio stile, quasi questo si evolvesse di pari passo con la drammaticità della sua esistenza, personalizzandolo al massimo e riuscendo a raggiungere vette qualitative che sono state solo di alcune grandi come Janis Joplin, Billie Holiday, Nina Simone e, seppur in un contesto stilistico diverso, Patti Smith.

Quindi grande merito ai produttori e musicisti Mark Ronson e Salaam Remi, che le sono stati vicini in tutta la sua parabola artistica, per il lavoro di ricerca che ha condotto alla produzione di questo disco postumo che esordisce con un classico anni 60, "Our Day Will Come", qui riproposto in una versione reggae che gli dona un’inaspettata leggerezza.

Sempre atmosfera anni ’60, benché registrata nel 2008, è quella della successiva "Between The Cheats", dove però il lavoro di personalizzazione di Amy è più marcato e, pur nella spensieratezza del clima, è possibile scorgere i primi segnali di una certa inquietudine. La successiva "Tears Dry" è una languida ballata di qualche anno prima che potrebbe essere uscita dalla penna di Burt Bacharach: amore e sofferenza sono le cifre di un mid tempo che ci consegnano un’interpretazione di grande intensità, dove la fragilità del personaggio si manifesta in tutte le sue sfumature, tanto che la scelta del brano successivo, "You still Love Me Tomorrow", scritta da quell’altra grande artista che è Carole King, appare del tutto naturale. Dopo aver fatto straziare il cuore dell’ascoltatore, Amy ci fa riprendere il battito naturale con una bella versione di "Like Smoke" del 2008, dove il languore del canto si contrappone al rap di Nas, con un risultato di assoluta piacevolezza.

"Valerie" è un piccolo classico nel repertorio dell’artista, qui ripresa in una versione meno veloce di quella apparsa sul disco Version di Mark Ronson ma non per questo meno coinvolgente. Lo standard "The Girl from Ipanema" è reso in versione minimale con la batteria in primo piano e una voce acerba che tolgono alla versione originale la leggerezza che la caratterizzava, ma anche parte della sua bellezza. "Half Time" è una ballata rarefatta, vicina ad alcuna delle ultime produzioni dell’artista, dove la voce e l’interpretazione fanno la differenza.

"Wake Up Alone" potrebbe essere uno qualsiasi dei classici di Nina Simone e l’interpretazione è talmente intensa da far male. Per fortuna una certa leggerezza torna a caratterizzare il disco nella successiva "Best Friends" dove il sottofondo dei fiati solo in parte riesce a celare un senso di inquietudine che invece emerge in tutta la sua evidenza nella successiva "A Song For You", un classico di Leon Russel, che ci consegna un’artista ormai avviata a un declino non certo artistico.

Chiude il disco "Body and soul", cantato in duetto con il grande Tony Bennet ed apparso sul suo ultimo disco di duetti. La cosa paradossale è che doveva essere un omaggio di Amy al mostro sacro; ma sentitela, l’intro cantato da Tony Bennet dà un significato esattamente opposto al brano tanto da renderlo un omaggio ad Amy, che canta in modo straordinario.

E così cala il sipario su un buon disco ma soprattutto sulla carriera di un’artista, che con due soli dischi ufficiali alle spalle, non facciamo fatica a definire straordinaria. Come dicevo….ci mancherà.

 

 

 

Se non ti basta ascolta anche:

Janis Joplin – "Pearl"

Nina Simone – "The essential"

Patti Smith – "Horses"

 

Legenda giudizio

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema

** se non ho proprio altro da ascoltare…

*** in fin dei conti, poteva essere peggio

**** da tempo non sentivo niente del genere

***** aiuto!Non mi esce più dalla testa

 

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