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Ecco Guizzetti, manager che aiuta i Paesi emergenti fotogallery

L'economista bergamasco Antonio Guizzetti lavora per la Banca Mondiale e ha un'agenzia a Washington D.C. che offre consulenza aziendale alle imprese e ONG impegnate nelle economie emergenti.

La "nostra-vostra" Gabriella Savio stavolta ha incotrato a Washington D.C. l’economista soverese Antonio Guizzetti che collabora con la Banca Mondiale. 

 

Ho incontrato Antonio Guizzetti nel suo ufficio qui a Washington, DC all’undicesimo piano di un edificio con vista sulla McPherson Square.

Non so molto di lui, tranne che è originario di Bergamo e che ha una compagnia di consulenza finanziaria. Mi fa accomodare in una saletta per le conferenze, mi offre un caffé e cominciamo con l’intervista.

Signor Guizzetti, mi parli un po’ della sua famiglia…

Sono nato in una famiglia bergamasca al 100%. Mio nonno era un coltivatore diretto, un contadino. Ai suoi tempi, si rifiutò di prendere la tessera del fascismo quindi il Podestà di Sovere lo espropriò di quel poco che aveva. Mio padre e mia madre sono di Sovere. Ho scoperto che in provincia di Bergamo c’è questo paese che si chiama Solto Collina e che, per una strana circostanza, su 150 famiglie cento portano il nome Guizzetti. Mio padre, Piero Guizzetti, faceva il sindacalista e fu incaricato di seguire il problema dell’emigrazione italiana quindi per un po’ fu trasferito a Lugano. Negli anni Ottanta acquistò delle industrie tessili in Val Seriana ma era anche uno scrittore che vinse molti premi letterari. Apparteneva a quella generazione italiana del dopo guerra che aveva una visione sullo sviluppo dell’industrializzazione, sulla politica dei redditi. A casa mia venivano De Gasperi, Don Sturzo, Flaminio Piccoli… Si parlava di cose sostanziali, per il futuro del Paese… Non si parlava certo di televisione o del Bunga Bunga.

Che tipo di formazione ha avuto?

Ho frequentato la scuola Sant’ Alessandro prima ed il Liceo Scientifico Lussana poi, ma Bergamo mi è sempre stata un po’ stretta. Sono un po’ sessantottino, nel senso che appartenevo al movimento studentesco. Dopo il Liceo decisi di frequentare la Bocconi perchè già allora ero molto interessato alle problematiche dei Paesi in via di sviluppo. Io non volli mai entrare nel business di mio padre perchè anche se era buono, generoso e cattolico, per me era un capitalista, quindi stava dall’altra parte della barricata. Andai a fare un dottorato alla London School of Economics, perchè pensai che la carriera universitaria mi potesse offrire un buon compromesso per quello che volevo fare: aiutare la società e guadagnarmi da vivere. Poi feci un altro dottorato a Parigi, Doctorate d’Etat, e quando tornai in Italia, il rettore della Bocconi mi contattò dicendomi che c’era una richiesta da parte della Banca Mondiale di mandare dei giovani economisti a Washington…

Perchè sta ridendo, Signor Guizzetti?

Perchè per il rettore della Bocconi era comodo che il capo del movimento studentesco andasse via… Ma è anche vero che io avevo i requisiti necessari: cercavano qualcuno che si interessasse dei problemi di sviluppo, che conoscesse le lingue e che avesse una mentalità internazionale. Quando all’inizio degli anni Novanta sono venuto a Washington, alla Banca Mondiale lavoravano 10 persone italiane. Adesso ce ne sono 200, quindi c’è stata una bella crescita.

Mi parli un po’ del suo lavoro.

Fare l’economista e lavorare per la Banca Mondiale è stato un lavoro molto interessante, ho viaggiato molto, visitato molti Paesi, ho imparato davvero tanto. Dopo un po’ di anni ho pensato che era arrivato il momento di avere il mio business ed ho fondato questa società di consulenza che si chiama Guizzetti e Associati. La Banca Mondiale ed agenzie correlate stanziano soldi ai Paesi in via di sviluppo che oggi si chiamano Paesi emergenti. Questi Paesi devono fare dei “tender” internazionali, cioè appalti, per spendere i finanzimenti per costruire ospedali, scuole, strade, ecc. Nel ’93 non c’era Internet quindi era molto complicato e dispendioso per un’impresa italiana essere informata su un progetto della Banca Mondiale. Io giocavo sul fatto di essere qui e velocizzare il processo. Oggi la pagina Web della Banca Mondiale fornisce tutti i dati e le informazioni necessarie, quindi per la mia compagnia è un po’ più difficile. Lavorare per lo sviluppo è un mestiere interessante, che arricchisce la persona, ma è un mestiere povero: se bisogna fare un impianto per portate acqua potabile in un paesino in Africa o in America Latina, credo che sia immorale che l’impresa di rappresentanza che segue questo progetto si porti via dei soldi come profitto quando questi soldi dovrebbero essere investiti nel progetto stesso.

Come si trova a Washington, DC?

Washington si è trasformata molto nel corso degli anni. Un grosso cambiamento è avvenuto quando hanno trasferito nel centro della città il palazzetto dello sport che si trovava a Landover in Maryland. Per vedere una partita di hockey su ghiaccio o pallacanestro bisognava farsi 40 minuti di macchina. Ho pensato che fosse un progetto da pazzi, pensavo ai parcheggi, alla confusione. Invece il Verizon Center è diventato una parte vitale di Washington, DC con negozi, cinema e ristoranti. Washington è una città dove si vive bene, c’é una buona offerta culturale, molti spazi verdi. Io esco da casa e vengo in ufficio camminando, poi il pomeriggio prendo l’autobus e vado in palestra, mi piace giocare a tennis. In Italia non potrei fare molte di queste cose.

Mi parli un po’ dell’Associazione Bergamaschi nel Mondo

Valerio Bettoni aveva avuto questa bella idea di fondare un’associazione di Bergamaschi che erano emigrati in cerca di lavoro. Gente che non aveva paura di lavorare sodo ma che in Italia non trovava sbocchi o cercava un futuro migliore. Un mio amico mi raccontò una storia allucinante. A Bangalore c’è una targa che ricorda 50 minatori morti… Erano tutti bergamaschi che lavoravano in alta Val Seriana per una compagnia inglese che aveva selezionato i migliori e se li era portati a lavorare nelle miniere in India. Si immagini anche solo le condizioni del viaggio, nel 1920, dall’Italia all’India, i sacrifici e le fatiche. Davvero una storia allucinante. Poi ci sono le storie toccanti come quelle di Don Antonio Berta di Sovere (1927-2007) che ha fondato la “Ciudad del niňo” in Bolivia. La “Citta’ del bambino” accoglieva qualcosa come tremila bambini abbandonati a se stessi, senza speranza. Da buon prete bergamasco del Patronato di San Vincenzo, molto pragmatico, don Berta innanzitutto insegnava loro un mestiere: idraulico, falegname, muratore. Certo, gli dava da mangiare, da dormire, ed un minimo di educazione cristiana ma poi, a diciotto anni, gli diceva di andare e farsi la loro vita. Alcuni bergamaschi, emigrati nel mondo, magari poi hanno avuto fortuna e sono diventati benestanti ma solo grazie al duro lavoro, su questo non c’è dubbio. Mi ricordo di aver partecipato ad una cena organizzata dall’associazione alla fiera di Bergamo cinque o sei anni fà… C’erano Bergamaschi arrivati un po’ dappertutto. Io ero al tavolo con Bettoni, Roby Facchinetti dei Pooh, Walter Bonati (lo scalatore morto un mese fa) e Felice Gimondi. Davvero fu un’esperienza molto positiva.

Le manca Bergamo?

Ci torno spesso ma non noto mai grossi cambiamenti. E’ una bella città dove ritrovo gli amici con cui tempo fa passeggiavo sul Sentierone ed andavo a bere l’aperitivo al Balzer. Dopo un’esperienza internazionale, a contatto con gente di tutto il mondo, non considero Bergamo come una città dove potrei tornare a vivere. E’ vero però che se fra qualche anno dovessi pianificare in che cimitero andare a finire, sicuramente non sceglierei quello di Washington, ma quello di Bergamo.

Dopo tanti anni all’estero, si sente più Italiano o Americano?

Beh, guardi: io vivo negli Stati Uniti da 20 anni e lavoro con un visto da investitore perchè ho la mia compagnia che impiega una decina di persone. Ogni tre/quattro anni il mio avvocato mi chiama per rinnovare il visto e mi dice “Ma perché non richiede la Green Card? Perché non fa la domanda per ottenere la cittadinanza americana?”. Io gli rispondo sempre: “No, io sono italiano e resto italiano”. Mi rifiuto di perdere la mia identità anche se è vero che oggi parlo sei lingue: italiano, francese, spagnolo, portoghese, inglese e… un po’ di giapponese.

Come… Lei parla giapponese?

Si, perchè ho vissuto per quattro anni in Giappone… Ma questa è un’altra storia.

Grazie mille di tutto, signor Guizzetti, e buon lavoro.

 

Articolo di Gabriella Savio – Washington, DC (Usa)

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