Solo tre persone erano al cantiere di Mapello nella serata di venerdì 26 novembre 2010, quando Yara Gambirasio è stata rapita. E’ questa l’indiscrezione pubblicata dal settimanale “Oggi”. Mohamed Fikri, il suo titolare Roberto Benozzo e il custode del cantiere, dipendente di una impresa di costruzioni di Brescia. “Oggi”, con un servizio a firma del giornalista di casa a Bergamo Giangavino Sulas, ribadisce tutti gli elementi che portano a sospetti a carico di Mohamed Fikri. Proponiamo il servizio integrale del settimanale:
Tre persone sanno o conoscono almeno una parte della verità sulla tragica fine di Yara. Perché non possono non aver visto, non possono non aver sentito. Perché la sera in cui Yara è scomparsa erano i soli presenti nel cantiere di Mapello. Due di loro lavoravano ai pavimenti e la terza faceva il custode del turno di notte. Eppure a quasi un anno dall’omicidio le indagini sono ferme. Non c’è un indizio. Lo ha ammesso la stessa Pm Letizia Ruggeri: «La relazione del medico legale è fondamentale anche perché non ho altro».
Ma le indagini, una settimana dopo la scomparsa della giovanissima ginnasta, sembravano giunte a una svolta con l’arresto del piastrellista marocchino Moahmed Fikri, quello che a telefono, parlando con la fidanzata, si lasciò sfuggire: «L’hanno uccisa davanti al cancello…». Poi gli interpreti modificarono il senso di quelle parole, Fikri fu scarcerato e il Pm ha chiesto per lui l’archiviazione. Di quell’indagine sembra non essere rimasto nulla. Neppure dopo che i risultati dell’autopsia hanno portato tutti nella stessa direzione: un cantiere edile.
Ma di cantieri aperti e in attività la notte del 26 novembre 2010 nella zona di Brembate Sopra ce n’era uno solo: quello di Mapello, dove sta sorgendo un enorme centro commerciale, dove, tre giorni dopo la scomparsa di Yara, i cani condussero gli inquirenti e dove, la sera in cui Yara sparì, erano solo in tre a lavorare: il custode e Fikri e Roberto Benozzo, il datore di lavoro che gli resse l’alibi.
Ecco perché i carabinieri sono convinti che qualcuno conosca almeno uno spezzone di verità sulla morte della ragazza e sono convinti che, per una serie di circostanze, questo qualcuno sia riuscito a passare indenne fra le maglie di chi indagava. «Se nel cantiere di Mapello la sera del 26 novembre erano presenti solo il custode, Fikri e Benozzo è pensabile», si chiedono gli inquirenti, «Che non abbiano visto o sentito niente? Perché Yara in quel cantiere è passata. Ce lo ha rivelato quel particolare pulviscolo di cemento scoperto dal medico legale nei bronchi, nelle vie aeree, sulla felpa e sulle ferite. Ce lo dice quel filamento di juta ritrovato sui vestiti della ragazza che proviene da un sacchetto di cemento e ce lo conferma la taglierina da piastrellista usata dall’assassino per colpire Yara alla schiena, sui polsi e alla gola». Ecco perché i risultati dell’autopsia conducono tutti con certezza al cantiere. E in quel cantiere Yara ci è arrivata viva perché i cani molecolari, usati per cercarla, fiutano e individuano solo la molecola vitale di un essere umano. I cani molecolari non trovano un corpo senza vita. Per questo compito vengono usati i cosiddetti cani da cimitero.
A Brembate, tre giorni dopo la scomparsa di Yara arrivarono tre cani molecolari dal fiuto infallibile che furono usati in tempi e situazioni diverse. Tutti e tre presero la stessa strada: il cantiere di Mapello. Il primo cane perse le tracce della ragazza a 10 metri dal cancello d’ingresso. Gli altri due entrarono e uno di loro puntò dritto verso un deposito di materiale elettrico che alcuni elettricisti polacchi usavano anche come spogliatoio. E in quel deposito il cane sembrava impazzito tanto intenso doveva essere l’odore di Yara. Forse l’assassino aveva usato quel locale per cambiarsi e liberarsi degli abiti sui quali erano rimaste le tracce della sua vittima. Prima o dopo l’omicidio? Una cosa è certa:Yara non è stata uccisa nel cantiere altrimenti i cani non avrebbero puntato lì. E’ stata massacrata nel campo di Chignolo dove è stata ritrovata il 26 febbraio scorso e dove probabilmente lei, forte e agile come solo una ginnasta può esserlo, era riuscito a sfuggire ai suoi aguzzini. Ma il destino le voltò le spalle: in quel buio pesto anziché correre verso i capannoni e la strada finì in mezzo ai campi affondando nel fango e nelle sterpaglie. Gli assassini (gli inquirenti sono concordi almeno su questo: erano due, forse anche in tre) la raggiunsero. Yara si è difesa disperatamente ingaggiando una lotta feroce. Per questo è stata massacrata, colpita prima alla testa, poi strangolata e infine ferita con la taglierina. Un martirio. La sua agonia è durata tre ore ha detto il medico legale.
Ma se Yara è arrivata viva al cantiere, probabilmente prigioniera su un furgone, le tre persone presenti possono non aver notato nulla? Ecco perché sono stati i primi ad essere interrogati e controllati. Il custode del turno notturno, interrogato fino all’esaurimento non è mai caduto in contraddizione: «E’ stata una serata tranquilla. Faceva freddo. Me ne stavo chiuso nel mio container. Ho guardato la televisione e ho dormito. Non ho visto e non ho sentito niente», ha ripetuto come un disco rotto.
Roberto Benozzo, piccolo imprenditore edile che si era assicurato un subappalto per la pavimentazione, e Mohamed Fikri hanno detto ai carabinieri di aver lavorato per tutta la notte. Poi il 4 dicembre il telefono di Fikri rivelò tutta un’altra scena. L’interprete araba della Procura di Bergamo sbobinava le intercettazioni. Chiamò i carabinieri: «C’è qualcosa che mi preoccupa», disse. E tradusse la frase appena ascoltata: «Che Allah mi perdoni ma non l’ho uccisa io…». Era Fikri che parlava da solo mentre attendeva la risposta a una sua chiamata. Dirà che voleva sollecitare al suo interlocutore la restituzione di 2 mila euro. Ma sul senso della prima parte della frase:«Che Allah mi perdoni…» tutti i traduttori non hanno dubbi. Ha detto proprio così. E non ha alcun senso se non è collegata alla seconda parte. Di cosa mai altrimenti avrebbe dovuto perdonarlo Allah? Di chiedere indietro soldi che gli spettavano? Il contrasto fra interpreti sorse sulla seconda parte della frase e questo portò alla scarcerazione di Fikri. Il quale però poche ore dopo essere stato interrogato dai carabinieri si confidò con la fidanzata. Le raccontò dell’interrogatorio e quando lei gli chiese: «Ma volevano sapere della ragazza?», lui replicò: «Si di lei… l’hanno uccisa davanti al cancello…».
Il giorno dopo i carabinieri scoprirono che Fikri a Genova si era imbarcato su un traghetto diretto in Marocco. Il magistrato ordinò di fermarlo. Portato a Bergamo il marocchino mentì raccontando che quel viaggio l’aveva programmato da tempo e che aveva acquistato i biglietti da un mese. Fikri aveva solo programmato le ferie per quel periodo perché gli scadeva il contratto. Ma la decisione di partire e l’acquisto dei biglietti la prese il giorno prima di partire. E su quel traghetto lui e Benozzo imbarcarano un furgone bianco, finito in Marocco, del quale non si sa più nulla.
E non si sa più nulla delle indagini. Si sa solo che è scoppiata la guerra fra la Procura e il Tribunale. Il Pm Letizia Ruggeri infatti tre mesi fa ha inviato al Gip Vincenza Màccora la richiesta di archiviazione per Fikri. Il Gip l’ha esaminata ma prima di prendere una decisione ha chiesto al Pm di poter avere a disposizione tutto il fascicolo. Altrimenti non archivia. E Letizia Ruggeri ha risposto: «Non glielo mando perché temo una fuga di notizie».
«Ma di quali notizie se non ce n’è neppure una?», hanno commentato polizia e carabinieri. Intanto Yara aspetta giustizia.
Giangavino Sulas
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