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Mons. Nicoli: la Curia un potere? Chiacchiere E io non ho mai fatto piangere nessuno

Ecco il testo di una lunga chiacchierata dell'ex arciprete di Nembro con Piero Bonicelli, direttore di Araberara, pubblicata sul Corriere della Sera di domenica 17. Si parla della sua malattia, del ruolo di "banchiere", del potere esercitato per tanti anni dentro e fuori la Diocesi di Bergamo.

Questo è il testo di una intervista concessa da monsignor Aldo Nicoli a Piero Bonicelli, direttore del quindicinale bergamasco Araberara, e pubblicata sul Corriere della Sera nell’edizione di domenica 17 agosto


«Sono sempre stato un prete, anche negli affari economici». E come lo si riconosce un prete, anche quando si occupa di alta finanza? «Dal modo di amministrare e usare i beni economici, non a scopo di lucro speculativo, ma caritativo, quindi facendo prevalere la carità, la generosità, la bontà, accanto alla giustizia».

Monsignor Aldo Nicoli ha il cancro, lo racconta senza giri di parole. Ma il cancro vero è quell’appellativo che gli hanno appioppato, «il Marcinkus bergamasco». «É l’offesa più grande che possono farmi». Lei ha maneggiato molto denaro: come lo considera? «Un mezzo, guai se ci si attacca». Lei è ricco?

«Di famiglia stiamo bene, non certo di mio. E alla mia famiglia ho sempre chiesto».

Occupandosi di «affari», avevano addirittura progettato di ucciderla: «Sì, erano i primi Anni ’80. Avevo scoperto un giro di malaffare, una piccola mafia che faceva il bello e il cattivo tempo. Era una cellula molto forte di imbroglioni. Succhiava il sangue un po’ a tutti, non solo alla Curia».

Perché se la sono presa con lei?

«Perché io avevo scoperto il giro. Un giorno il cappellano del carcere, don Vitale, mi avvisa: "guarda che ho avuto una soffiata, ti vogliono far fuori con un incidente stradale". E mi dice anche chi. Mi è testimone don Tarcisio Ferrari, l’ex segretario del vescovo Gaddi. Per un mese ho viaggiato con una tremenda paura e quando tornavo a casa mi barricavo, chiudevo porte e finestre. Pochi giorni dopo mi arriva la notizia: l’uomo che voleva ucciderti è morto in un incidente stradale».

Che abbia dato fastidio a qualcuno, don Aldo, lo ammette. E adesso che i medici dicono che non guarirà da quel tumore al fegato, ha deciso di morire a Nembro, nella sua parrocchia, come un «pastore d’anime» e non come un «prete degli affari».

La malattia lo costringe a un calvario giornaliero, cure dolorose, lunghe, anche se lasciano intatta la faccia. «Me lo dicono anche i medici: impossibile che queste cartelle cliniche corrispondano al suo aspetto».

Un’altra leggenda, quella di un prete fin troppo moderno: sport, macchine di lusso, forse donne («No, di donne grazie a Dio non si è mai parlato, di me hanno detto di tutto, ma almeno di questo non mi hanno mai accusato»). «Banchiere di Dio» con fama di «duro», questo monsignore che fa stracciare un accordo già raggiunto tra il Credito Bergamasco («un gioiello di banca, l’unica restata davvero bergamasca») e la Banca Popolare di Novara, indirizzando verso un accordo con il Crédit Lyonnais («Meglio avere un socio lontano che uno troppo vicino»).

Ed è in questo periodo che tocca qualche interesse di troppo e pensano di «farlo fuori».

Lei ha scritto: «La Provvidenza, che mi ha sempre accompagnato, volle che fosse proprio lui a morire in quei giorni, vittima di un incidente stradale». Qualche suo confratello ha storto il naso, la Provvidenza non uccide uno per salvare un altro. «Figurarsi, volevo solo dire che la Provvidenza mi ha assistito anche in quei momenti difficili. Don Bepo Vavassori (fondatore del Patronato San Vincenzo, il don Bosco bergamasco) mi ha sempre detto: "c’è la Provvidenza, bisogna stuzzicarla attraverso le persone"».

È ancora la Provvidenza, «stuzzicata» da una benedizione di Papa Paolo VI che gli dà l’idea di lottizzare a Presezzo terreni agricoli di proprietà della Curia, per pagare i 4 miliardi di debiti fatti per la costruzione del seminario nuovo, voluto da Giovanni XXIII sul Colle S. Giovanni in Città Alta. «Paolo VI non ci diede soldi, solo la sua benedizione. Ma servì, eccome!».
Lei diventò anche banchiere. «Ma no, avendo la diocesi delle azioni del Credito Bergamasco ed essendo io vicario episcopale per le attività amministrative, sono stato coinvolto nelle trattative di cessione della banca e sono riuscito a far saltare l’accordo con la Banca Popolare di Novara e a portare la cessione al Crédit Lyonnais, che ci assicurava di mantenere il Credito Bergamasco ancora in mano ai bergamaschi, pur avendo i francesi la maggioranza delle azioni. Da qui a dire che sono diventato un banchiere ce ne vuole della fantasia».

Le avevano chiesto anche di lavorare per lo Ior: «Mi avevano contattato, ma ho risposto un no secco».

Perché? «Perché volevo fare il prete, non l’impiegato. Comunque Marcinkus io non l’ho mai né visto né conosciuto, perché ero stato contattato da mons. De Benis ancora prima di tutti i pasticci capitati con Marcinkus. Ero stato chiamato anche per l’economato della Cei, ai tempi del card. Poma, ma il vescovo Gaddi preferì tenermi al suo fianco».

Ma poi a Roma ha accettato l’incarico di Delegato Pontificio. «Mi hanno chiamato a Roma nel 1995, quando ero già arciprete qui a Nembro, per affidarmi l’incarico di Delegato Pontificio della Compagnia di S. Paolo, che era in una situazione fallimentare. Ho accettato di occuparmene, come pure ho accettato altri incarichi dal Vaticano, ma sempre alla solita condizione: di restare parroco e pastore di anime. In 11 anni ho risanato le sorti della Compagnia di S. Paolo senza far mancare niente alla mia parrocchia come servizio pastorale».

Con un potere così vasto la tentazione di mettersi in politica ci sarà stata. «Mai mi sono occupato di politica, anche se ho sempre cercato di dialogare e di andare d’accordo con tutti».

La Curia di Bergamo è sempre stata indicata come centro di potere politico. «Solo chiacchiere. Pur essendo stato collaboratore diretto sia di mons. Gaddi che di mons. Oggioni, non li ho mai sentiti dire chi bisognava votare o cose del genere. Mai».

Ma lei, diventato arciprete di Nembro, si scontrò con i leghisti: «Mi hanno fatto qualche sgambetto, togliendomi per esempio dal consiglio della Casa di Riposo, ma erano loro che non volevano aver a che fare con me. Io non ho reagito per nulla, anzi ho continuato a lavorare per il bene della comunità sia religiosa che civile».

L’hanno sempre descritta come un prete che fa sport, che va sulle spider…

«Sono favole, io ho sempre avuto macchine piccole, adesso ho una Smart. Se ho usato macchine grosse, era per servizio ed erano dell’Eco di Bergamo. La storia delle macchine sportive è pura leggenda. Forse è nata quando ho inventato un rally a Casale di Albino, rally che c’è ancora e sono salito su una di quelle auto, tanto per provare e da lì è nato il prete dalla spider rossa… Sport ne ho sempre fatto, ma di movimento, tennis, sci, bici… Prima della malattia mezz’ora di cyclette ogni mattina dalle 6 alle 6.30 facendo la meditazione ascoltando Radio Maria. Adesso i medici mi hanno proibito ogni sport, solo passeggiate in pianura con moderazione».

Ha deciso di morire qui a Nembro: «Il progetto era di ritirarmi, per quel che resta della vita, alla Trinità di Albino, dove l’anno prossimo sarà pronta una grande struttura come Centro di Spiritualità per le famiglie. Poi i tempi sono precipitati. I medici mi hanno detto, se fosse stato solo qualche anno fa le avremmo dato due mesi di vita, adesso la chemioterapia è più mirata, per cui c’è la speranza di poter convivere di più con la malattia, non certo di fare progetti con un futuro così incerto».

Una cosa che vorrebbe le fosse riconosciuta? «Quella di esser quel che sono e ho sempre voluto essere: sacerdote pastore d’anime più che amministratore, perché anche nell’amministrazione mi sono sempre mosso e comportato da prete nel senso più pieno della parola. E non ho mai fatto piangere nessuno».

Piero Bonicelli

 

 

 

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